di Redazione
Douglas Anderson, compositore e direttore d’orchestra ma anche didatta e produttore, attivo a New York da oltre quarant’anni, nella sua produzione abbraccia ambiti musicali anche diametralmente diversi, passando da pezzi per orchestra a drammi radiofonici; dalla musica vocale all’elettronica; dal jazz alla musica da camera. Una carriera densa di tappe significative, una biografia che disegna l’immagine di un artista multisfaccettato, lontano – così s’immagina – dai vincoli accademici che spesso trascinano verso questa o quella scuola di pensiero, rischiando di incasellare i compositori in strade già sottilmente tracciate. Chamber Symphonies 2, 3 & 4 esce nel Gennaio di quest’anno per Ravello Records. Dalla Chamber Symphony n. 2 alla Chamber Symphony n. 4 passano ventidue anni, il primo lavoro è stato scritto nel 1989, il secondo in un passato talmente recente da chiamarlo ancora presente, il 2011. Tra loro, la Chamber Symphony n. 3, più vicina all’ultima (2001).
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All’ascolto, però, i ventidue anni trascorsi non si sentono. Non solo, ipotizzando di non sapere la data di pubblicazione del disco si potrebbe pensare di trovarsi di fronte a un compositore del primo Novecento, particolarmente influenzato dalla scrittura di Schoenberg, nell’esperienza atonale ma anche nella dodecafonia (che non ce ne voglia il Maestro, per il termine che lui non amava).
Scritte su commissione di particolari ensemble di musicisti legati al compositore da rapporti di amicizia e di lavoro duraturi, le sinfonie esplorano vari linguaggi musicali, che poggiano però tutti su una struttura di tre movimenti interconnessi, legati tra loro da brevi cadenze, eseguiti senza interruzione. Anderson afferma di aver trovato in Schoenberg un Maestro per quanto riguarda la concezione di sinfonia differente dalla tradizionale scrittura per orchestra, divisa in quattro tempi: le due Kammersymphonie op. 9 e op. 38 avevano infatti entrambe la particolarità di essere concepite in un unico grande movimento, diviso poi in sezioni senza soluzione di continuità.
Non solo questo lega Anderson a Schoenberg: nelle tre Chamber Symponies (va detto, tra l’altro, che la Chamber Symphony n.1 nasceva proprio successivamente allo studio e alla direzione delle due opere citate del maestro della Seconda Scuola di Vienna) assistiamo a un generale procedimento di allentamento dell’ordine della serie, che viene di fatto usata come se fosse una scala, dando così all’ascoltatore l’impressione di cogliere appigli in certi passaggi che risultano famigliari all’ascolto, come ad esempio succede con piccoli gruppi di altezze vengono usati per brevi progressioni ricorrenti. A tratti, come nell’introduzione e nel primo movimento della Sinfonia n. 3, la scrittura sembra quasi voler essere una narrazione, lasciando spazio ad armonie tradizionali.
Ovviamente in tutti e tre i lavori, la tavolozza dei colori è limitata, non abbiamo un’orchestra ma gruppi da camera: questo permette al compositore di indagare al meglio le potenzialità dell’idea base da sviluppare, puntando sulla combinazione dei vari timbri e sull’interscambio del materiale tra uno strumento e l’altro, che risulta molto chiaro già dopo pochi ascolti. Così come i timbri, anche le scelte ritmiche e dinamiche sono chiaramente pensate in funzione di questi insiemi di altezze attorno a cui ruotano le tre sinfonie. Nulla da eccepire, infondo: nell’album c’è una coerenza d’intenti che lega i vari pezzi e rende il lavoro organico, nulla però che sconvolga le nostre certezze né – ed è un vero peccato – che arricchisca d’unicità il nostro bagaglio.
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Pubblicato il 2016-03-03 Scritto da ClaudiaFerrari