di Luca Chierici
All’interno della festa rossiniana che ha caratterizzato questa ripresa di stagione autunnale alla Scala – sorvoliamo sugli attuali problemi di capienza delle sale che in questi giorni di (in) decisione da parte del Governo pesano terribilmente sulla programmazione di tutti i teatri – è stata la volta di un Barbiere di Siviglia ancora legato a una tradizione incancellabile che aveva avuto soprattutto, ma non solo, il proprio epicentro nelle stagioni tra il 1969 e il 1984 con la indimenticabile produzione Abbado-Ponnelle, affiancata da altrettanto indimenticabili interpreti vocali.
Riccardo Chailly aveva preso in mano le sorti del capolavoro rossiniano nel 1999 e ripropone oggi un Barbiere meditato, che sembra temperare i ritmi scatenati della tradizione salvo riproporli solamente nei momenti di maggiore concitazione, in una sorta di ricordo affettuoso di una stagione passata vissuta in prima persona a fianco dello stesso Abbado e con il riferimento saggio all’edizione critica redatta da Alberto Zedda e qui seguita con la sola libertà nel taglio di alcuni recitativi. È stata una lettura dove si è ammirata soprattutto la successione di tensioni e distensioni che rende estremamente interessante la varietà del fraseggio e che è il frutto di una esperienza che oggi non ha eguali. Nessun colpo di scena, a partire da una superba sinfonia eseguita a sipario chiuso, ma una conduzione affettuosa e allo stesso tempo analitica che si è svolta attraverso un lavoro complicatissimo con l’orchestra e le voci, una richiesta di impegno formidabile da parte del direttore vissuta quasi con riconoscenza dall’orchestra stessa e dai cantanti.
Un ruolo non secondario lo hanno avuto certi particolari come la scelta dell’impiego del sistro (uno strumento che non ha una precisa intonazione ma solamente una funzione ritmica) e del pianoforte “storico” al posto del cembalo (suonato con grande fantasia da Paolo Spadaro Munitto). Ma si tratta tutto sommato di dettagli che arricchiscono una scelta già molto attenta alle sonorità orchestrali.
La regìa di questo Barbiere era affidata a Leo Muscato, professionista di ventennale esperienza il cui prodotto ha convinto di più nella proposizione sottolineata dai media e dalle parole dello stesso Muscato nel corso degli incontri con la stampa che alla prova dei fatti. L’idea conduttrice, sulla carta, era di per sé interessante anche se non certo nuovissima. Un gioco di teatro nel teatro che propone la preparazione di uno spettacolo (“L’inutil precauzione” ossia il titolo alternativo dell’opera rossiniana) da parte di un impresario (Bartolo) che insidia la vedette-ètoile (Rosina). Figaro è il tuttofare, Fiorello è il primo violino dell’orchestra, Almaviva-Lindoro un ricco personaggio esterno che ha corrotto Fiorello per organizzare una serenata per Rosina, Berta la coreografa e via di seguito. E la considerazione di fondo del regista – incontrovertibile – era relativa al fatto che tutti i protagonisti del Barbiere hanno comunque a che fare con il teatro e la musica, da Almaviva e Figaro che fanno il loro ingresso cantando, a Rosina che si sottopone alla lezione di canto, a Basilio che di Musica è Maestro.
Però, come nella maggior parte dei casi di queste rivisitazioni dei ruoli del libretto originale, anche qui le cose funzionano secondo una certa logica, pur lontana dalla tradizione, per un limitato periodo di tempo, salvo scontrarsi con una perdita di coerenza nelle azioni successive. Qui tutto sommato la nuova successione dei fatti poteva anche confondersi con il procedere della folle giornata rossiniana, ma a un certo punto gli elementi secondari, soprattutto per ciò che riguarda la presenza di una compagnia di danza en travesti – la coregrafia era di Nicole Kehrberger, i costumi di Silvia Aymonino – diventavano sempre più ingombranti e superflui, così come superfluo era l’omaggio a Ponnelle del quale si riproponevano le irresistibili meccanicità delle scene d’assieme soprattutto nel finale primo. Le scene indovinate di Federica Parolini sono servite di ottimo supporto all’invenzione del regista.
L’essere stati comunque in grado di seguire alla perfezione le indicazioni dl Muscato è comunque ulteriore prova di eccellenza da parte dei componenti di un cast omogeneo almeno per ciò che riguarda il punto di vista teatrale. Un lavoro d’assieme che ha premiato la percezione dello spettacolo da parte del pubblico e portato a un successo non certo di circostanza. Si è notata però, pensando al lato strettamente vocale oltre che a quello complessivo di interpretazione del personaggio, una scala di valori che premiava soprattutto alcuni protagonisti. Mattia Olivieri, innanzitutto, è stato un Figaro che ha d’un colpo conquistato i presenti sia con una spontaneità giovanile di approccio che con un contributo vocale di prim’ordine, una emissione naturale, corposa, chiarissima, che coniugava sia le effusioni liriche che i dettagli del recitativo. A lui sono state tributate vere e proprie ovazioni durante la recita e soprattutto nel momento del resoconto finale. Maxim Mironov è stato un Almaviva di principesco incedere e assieme un Lindoro amoroso e tenero, utilizzando un timbro che sembrava fatto apposta per coprire tutte le sfaccettature del ruolo. Svetlina Stoyanova si è trovata da un lato a non volersi troppo confondere col cipiglio della Rosina callasiana e ha assolto egregiamente al compito pur non lasciando una impressione indelebile nell’ascoltatore. Marco Filippo Romano era un Bartolo fin troppo intelligente e poco caricaturale, benché veterano del ruolo e perfetto nel rendere tutte le insidie della rapida sillabazione. Nicola Ulivieri non dava anch’egli troppo spazio al lato tradizionalmente buffo del ruolo, prendendo fin troppo sul serio una parte in altri tempi più caricata di movenze ridicole. Brava Lavinia Bini nel ruolo di Berta e corretto il Fiorello di Costantino Finucci. Lo spontaneo successo di pubblico ha permesso in ogni caso di verificare a conti fatti la bontà dell’allestimento complessivo di questo evergreen rossiniano.