[/wide]
Opera • La Sagra Musicale Malatestiana ha proposto una selezione del Palagio d’Atlante di Luigi Rossi, composta a Roma nel 1642. Nel concerto ha esordito l’ensemble strumentale Sezione Aurea, diretto da Luca Giardini
di Francesco Lora
Prima di culminare nei concerti sinfonici di fine agosto – inizio settembre, con le grandi orchestre ospiti, la Sagra Musicale Malatestiana di Rimini ha aperto come di consueto alla rarità musicale e all’esperimento teatrale. Il 13-14 agosto lo ha fatto riaprendo due palazzi. Il primo è il teatro Galli di Rimini, ieri gioiello architettonico e acustico, oggi mole bombardata ed eterno cantiere, agibile tuttavia nella sua parte anteriore, col monumentale ingresso, gli scaloni simmetrici e il foyer del piano superiore. Il secondo è quello incantato di Atlante, costruito coi versi poetici di Giulio Rospigliosi (intellettuale e diplomatico di rango, in séguito eletto papa come Clemente IX) e le note musicali di Luigi Rossi (un principe della scuola compositiva romana, oggi degno di essere restituito all’antico trono). Correva l’anno 1642, e Il palagio d’Atlante overo La guerriera amante fu un evento senza pari per il pubblico di Roma convenuto nel Palazzo Barberini: diverse ore di rappresentazione, oltre venti personaggi, peripezie a non finire, esibizione di macchine sceniche e un trentacinquenne cardinale Antonio intento a proseguire la politica mecenatesca, culturale e propagandistica dello zio Maffeo Vincenzo, regnante come papa Urbano VIII. L’evento fu senza pari anche perché non poté essere ripreso al di fuori di quel contesto unico; rimasero testimoni sparsi dello spettacolo: brani sciolti in decine di antologie, e poche partiture manoscritte, non ben concordanti tra loro e lacunose sia nello sviluppo orizzontale (i singoli brani che compongono un’opera) sia in quello verticale (le parti strumentali che accompagnano il canto); per quanto censito, riordinato e studiato, questo materiale consente oggi di vedere Il palagio d’Atlante dal buco della serratura, senza che il testo originale possa essere scorso nella sua integrità.
Non solo entusiasmo e dedizione, ma anche una competenza tecnica e stilistica con pochi termini di paragone deve essere riconosciuta alle voci soliste
Il cantiere aperto del teatro Galli, dunque, e il cantiere aperto di Rospigliosi e Rossi. Alla Malatestiana hanno messo i resti di un palazzo dentro quelli dell’altro, accogliendo nel foyer del teatro un concerto con brani scelti dal Palagio d’Atlante (e in particolare dalla sua fonte bolognese: il manoscritto BB.255 del Museo internazionale e Biblioteca della Musica). Gli studi sulla prassi musicale del contesto d’origine sono ancora in arretrato, o non ben divulgati, o non ancora esaustivi: non è quindi maturo il tempo per una puntigliosa valutazione filologica dell’esecuzione riminese. È però certo che l’ensemble strumentale Sezione Aurea, appena fondata dal violinista Luca Giardini e da lui diretta, si è dedicata al progetto con entusiasmo e dedizione, giovandosi del valore di ciascun suo elemento; né la cosa ha da stupire, poiché il piccolo organico – assai meno numeroso di quello barberiniano e non sempre coerente con esso: cornetto torto, due violini, due viole, violoncello, violone e clavicembalo – ha attinto nomi illustri dalle principali orchestre italiane con strumenti originali, e nel fraseggio e nel timbro ha saputo evocare i contrasti corruschi della Roma barocca. Non solo entusiasmo e dedizione, ma anche una competenza tecnica e stilistica con pochi termini di paragone deve essere riconosciuta alle voci soliste. Sia detto a chiare lettere: a Rimini si è ascoltata una tra le più eccelse prove canore oggi possibili nel repertorio antico, e il merito è dato da un’autonomia intellettuale e da un’erudizione pluridisciplinare che assai di rado entrano nel percorso formativo di un cantante.
Alberto Allegrezza, per intenderci, è divenuto tenore nel tempo stesso in cui diveniva flautista, attore, scenografo, costumista e cultore di letteratura barocca, il tutto comprovato da una carriera che, se la si vuol vedere come un’idra, lancia fiamme alte e chiare da ogni testa. A Rimini gli sono state assegnate scene di Atlante («Tra tant’altri guerrieri, Orlando infine»), Ruggiero («Oh, come è breve l’ora» ed «Eh, dimmi, aura cortese»), Iroldo («Par che m’accenni il core») e Astolfo («Non tra’ fiori l’onor verace»). E se si è ammirata una voce risonante, ben timbrata e uniforme lungo tutta l’estensione, solida nell’emissione ma pronta alla modulazione, ancor più si è ammirata la differenza di colori assegnati a ogni personaggio, per non dire la dizione scolpita e l’accento sottile che non solo hanno dato pregnanza a ogni sillaba, ma anche hanno colto e scoccato lo schema accentuativo del verso (in recitativi infiniti e in arie a metro misto), le onomatopee e gli artifici retorici tutti della letteratura verbale e musicale secentesca. Su un piano di parità si è ritrovata Elena Cecchi Fedi, cui spettavano in particolare un lamento e una grande scena di Bradamante («Sol per breve momento» e «Dove mi spingi, amor, dove, ohimè, dove?») e una pimpante aria di Marfisa («Si tocchi tamburo»). Anche in questo caso si è rimasti ora commossi ora esaltati di fronte alla gamma d’affetti, dal più tenue al più veemente, che il soprano ha suscitato con tanta altezza d’arte retorica quanta semplice immediatezza di porgere: per la Cecchi Fedi, par di capire, questa è l’ovvietà.
Su un piano non inferiore, ma un poco discosto, si è collocato il soprano Silvia Vajente, che a differenza dei colleghi ha ricevuto brani perlopiù non in stile recitativo, bensì da cantarsi a battuta: lo sfarzoso prologo intonato dalla Pittura personificata («Vaghi rivi»), un’aria strofica di Fiordiligi con effetto d’eco («Se mi toglie ria sventura») e due scene di Prasildo («Sperai trovar Iroldo; or ch’alla speme», più un frammento dall’atto III). In questo caso, le ragioni della musica avevano la precedenza su quelle della poesia, e hanno richiesto più rigore ritmico e colori meno frastagliati: quanto basta a mettere in luce una linea di canto forbita, un’interprete sensibile e un timbro personale (nonché la perfetta complementarità con la Cecchi Fedi nel duetto «Che non puote sereno sguardo»). Al ricordo dello spettacolo riminese si accompagnerà un solo rammarico, e cioè che all’esecuzione sia stata sovrapposta un’installazione-performance a cura di una compagnia di teatro sperimentale: pretenziosa, rumorosa e parassita agli orecchi dell’appassionato di musica antica, tale azione mimica si è posta in senso contrario rispetto alla spiritosa poetica di Ariosto, alla logica drammaturgica di Rospigliosi e Rossi che da essa deriva, nonché alla perizia dei musicisti e all’abnegazione che ha contraddistinto il loro lavoro. Dissolto per sempre l’incanto di Roma 1642, lo si riveda piuttosto nell’ascolto a occhi chiusi.
© Riproduzione riservata
al di la’ della bravura dei singoli cantanti, vorrei spezzare una lancia in favore del
violinista barocco LUCA GIARDINI , unico come atteggiamento scenico e come tecnica sopraffina nel panorama europeo e mondiale .Portavoce di un rinnovamento che libera il violinista dai tanti lacci posturali imposti da canoni
scenici che nel corso del tempo hanno ingessato sia il violinista orchestrale che solista .ben venga il barocco a liberare il violino e i violinisti . Gettate via le vostre spalliere e mentoniere ,protesi imposte e non assolutamente necessarie , anzi nocive!!!!!!!visto che anche NICCOLO’ PAGANINI non le uso’ mai e suono’ sempre lo strumento nella maniera piu’ naturale possibile .
ciao