
Opera • Guglielmo Tell, Italiana in Algeri, L’occasione fa il ladro tra nuove produzioni e storiche riprese significative
di Ilaria Badino
Se «Rossiniani di tutto il mondo, unitevi!» potrebbe essere, tra il serio e il faceto, il pay off del festival pesarese giunto alla sua trentaquattresima edizione, il motto marxista – benché sempre declinato in modo diverso dall’originale – s’attaglia decisamente meno al popolo svizzero bassomedievale così come fotografato nel 1829 dal divino Gioachino. Allestire scenicamente il Tell è un’impresa ardua, e proprio perché tale necessita di totali prese di coscienza e di responsabilità: se, giustamente, se ne si vuole dare una versione che si stacchi dalla mera oleografia, bisognerebbe farlo sostenendo un’idea drammaturgica coerente per tutta la durata dell’opera. La nuova produzione di Graham Vick si fonda sulla felice intuizione secondo la quale la rivendicazione di un territorio è sinonimo di filiale attaccamento alla terra, vista come elemento dispensatore di vita e d’identità nazionale. Da qui alcune soluzioni vincenti: Melcthal che, nel prim’atto, benedice laicamente le tre coppie in procinto di sposarsi riversando sulle loro destre congiunte manciate di granelli bruni; la proiezione, durante l’aria di Arnold del quart’atto, di un video che mostra il giovane congiurato da bambino mentre passa col padre una giornata nei campi, apprendendone i segreti e le gioie. Peccato che tale filone risulti appena sbozzato e riemerga solo a sprazzi, alternato ad accorgimenti meno riusciti e comunque mai ben giustificati o collegati fra loro: tra di essi, annoveriamo il già citato poco credibile movimento comunista svizzero, forgiando il quale il regista inglese calca iconograficamente scene di massa – con tanto di bandiere rosse, pugno alzato e falce e martello incrociati – da Novecento, Atto II ed il balletto del terz’atto, in cui le azioni di sadismo dispensate abbondantemente dai dominatori asburgici (forse in maniera anche troppo reiterata?) sono mutuate dal Pasolini di Salò o le 120 giornate di Sodoma. Suggestiva è invece l’apparizione di un’enorme scala, rossa anch’essa, che scende lentamente a collegare gli ex-oppressi con la loro nuova, celestiale condizione di autosovranità e che solo Jemmy, figlio ancora adolescente dell’eroe nazionale con tutta una vita di speranza e di «liberté» davanti, può percorrere. Toccante, ma francamente troppo poco per quattro ore di musica che segnano in maniera indelebile l’estetica della storia del melodramma.
Ai cultori del teatro operistico non sembrerà paradossale che l’allestimento più riuscito dell’edizione sia stato quello dell’Occasione fa il ladro firmato nel 1987 da Jean-Pierre Ponnelle
Musicalmente, ineccepibili il Coro e l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna (a parte un paio di fisiologiche svirgolate dei corni) guidati con piglio sicuro da Michele Mariotti. Al giovane Maestro evidentemente ha fatto bene crescere respirando l’aria di Pesaro: la ricerca di significati inusitati si snoda, profonda e curiosa, nei meandri della colossale partitura senza mai conoscere un attimo di stanca, indugiando in nuovi e più intensamente sentiti rallentando, facendosi rapire in vorticosi accelerando, stemperandosi in impalpabili diminuendo o infuocandosi d’imperiosi crescendo. La comunione con Rossini è totale. Per di più, perfettamente compiuta è l’empatica fusione tra buca orchestrale e cantanti: Mariotti prende fiato con loro.
L’attesa era quasi tutta concentrata sul debutto europeo di Juan Diego Flórez nell’ostica parte di Melcthal Junior. Il saggio del musicologo Marco Beghelli «Ma quale tenore per Arnold?» contenuto nel programma di sala ha un poco il sapore dell’apologia a priori di tale scelta di casting; se da un lato è giusto ribadire il concetto che non è necessario un vocione tonitruante pensando che nel 1995, alla prima messinscena del Guillaume Tell da parte del ROF, un altro rossiniano di razza quale Gregory Kunde fu frainteso forse perché s’allontanava, per natura ed intenzioni, dalla tradizione di ugole stentoree impostasi nel Novecento con Filippeschi e Bonisolli, dall’altro bisognerebbe però anche tenere conto, per non cadere nell’altrettanto fatale errore che Arnold sia soltanto un figurino unidimensionale, della caleidoscopica complessità psicologica dei ruoli scritti per quell’Adolphe Nourrit che ne fu il creatore. Premesso ciò, la prova di Flórez si contraddistingue per estrema pertinenza belcantistica: il nitore della linea, l’avvolgente morbidezza del legato, l’incredibile omogeneità dei registri si stagliano come atout più unici che rari nel panorama odierno. A renderci esitanti nell’affermare che si è trattato di una riuscita totale è l’adesione solo parzialmente convinta da parte del divo peruviano alla tortuosa personalità dell’(anti?)eroe nourritiano, ma è pur vero che tale monocromia è stata in gran parte incentivata da una regia alquanto anonima a riguardo. A fine recita, al bel Juan Diego è stato tributato un successo al calor bianco da quello stesso, riconoscente pubblico al quale la sua stella si è svelata in modo quasi fortuito ormai ben diciassette anni fa.
Marina Rebeka negli eleganti panni di Mathilde dimostra di essersi attestata su binari di affidabilità e d’efficienza, allorquando deficitano intensa personalità artistica e pregnanza interpretativa. La voce, di pregevole qualità, è diventata più robusta, voluminosa e penetrante rispetto agli esordi, ma contestualmente sono via via venute a mancare le prerogative belcantistiche (agio nella gestione del fiato, facilità nell’ascesa agli acuti, propensione alla coloratura) che, nel 2007, l’avevano fatta emergere dalla fucina dell’Accademia Rossiniana: emblematica in tal senso la seconda aria «Pour notre amour plus d’espérance», in cui nelle rapide scale prima discendenti e poi ascendenti – unico vero banco di prova per sondare l’attitudine del soprano primo al canto d’agilità – la Rebeka non è un fulmine di guerra. Il Guillame Tell di Nicola Alaimo non riesce ad imporsi per mezzo di quella sobria autorevolezza che qui fa grande Michele Pertusi, ma va anche detto a sua parziale discolpa che il ruolo, di un’audacia ombrosa, non è certo tra i più facili a cui dare risalto (che Guglielmo sia “eponimo” non ci sono dubbi, ma “protagonista”… ne siamo sicuri?) e che, anche in questo caso, un certo incoraggiamento all’indolenza sia da ricondurre a Vick. Di un’esuberanza tutta verdeggiante il Jemmy di Amanda Forsythe, splendida padrona della scena che però mostra il fianco negli acuti, filiformi soprattutto nell’aria solitamente espunta (ma l’integralità a Pesaro è un giusto obbligo) del terz’atto «Ah, que ton âme se rassure». Buono il reparto dei bassi: Simón Orfila (Walter Furst), Simone Alberghini (Melcthal) e, soprattutto, Luca Tittoto (Gesler), di cui scopriamo con piacere le squisite doti attoriali e danzanti. Corretti Celso Albelo e Veronica Simeoni, rispettivamente un Pêcheur dagli argentini Do sovracuti ed una Hedwige di materna solidità, mentre appena sufficienti ci sono parsi Alessandro Luciano quale Rodolphe e Wojtek Gierlach nelle duplici vesti di Leuthold e del Chasseur.
Discorso diverso per l’altra nuova produzione di quest’anno. Davide Livermore ha senza dubbio dato migliore prova del proprio talento in altre occasioni (basti pensare al geniale Don Giovanni genovese del 2005, agli intensi Vespri siciliani torinesi del 2011 o al recente, essenziale, Otello valenciano), ma la sua messinscena dell’Italiana in Algeri è sembrata essere, anche se una follia, perlomeno una «follia organizzata». Molteplici sono stati gli alvei di cultura popolare dai quali il regista ha tratto spunto: la Hollywood stravagante e colorata di Blake Edwards; le spy story su cui regna sovrana la serie dei James Bond; il cabaret italiano con i suoi gesti spicci, forse poco raffinati ma eloquenti; il fumetto degli ultimi anni ’60. Infine, l’allegra coppia gay formata da un energumeno, spesso baffuto, e da un più femmineo, svenevole personaggio, altrettanto spesso in vestaglia (qui rispettivamente Haly e l’eunuco capo) riporta alla mente tutto un filone cinematografico e televisivo che parte dal Vizietto ed approda al Jean-Claude di Sensualità a corte con i suoi improbabili fidanzati supereroi. Tra le figure iconiche a cui s’è attinto per dare vita alla rilettura del personaggio protagonistico regna sovrana la Barbarella di Jane Fonda e ci mette lo zampino pure la nostra Mina. Ovvio che, in quest’esperimento di Regietheater in salsa italica, la sottile ironia che percorre l’opera e l’inafferrabile carica seduttiva d’Isabella perdono di stile e d’eleganza e, di conseguenza, anche di genio, ma il giochetto della sovrapposizione di una nuova storia su quella originale, perlomeno in parte, funziona. Vengono volutamente esasperati i fondamentali cardini drammatici di una femminilità occidentale trionfante (sebbene talvolta assai poco muliebre) e di una maschilità mediorientale tutta esteriore e per questo risibile. Così, la protagonista è un agente segreto in gonnella, dispensatrice più di mosse di kung fu che non di sdilinquenti battiti di ciglia, partita alla volta di Algeri per liberare il goffo ma amato collega Lindoro, ed il suo uguale e contrario Mustafà un vanaglorioso magnate del petrolio che, nonostante «tutta la sua boria», deve imbottirsi di magiche pilloline blu al ritmo dell’aria «Già d’insolito ardore nel petto» per poter contare su un risultato garantito (sarà per questo che è poi lì lì per infartare nel terzetto del Pappataci?). Nell’ottica di questa parafrasi, il concertato finale del prim’atto «Va sossopra il mio cervello», con tutti i suoi versi onomatopeici, non può che germinare da un’inconsapevole bevuta generale di acido ed essere accompagnato da visioni psichedeliche di vortici bicolori. Livermore non rinuncia infine all’amara satira sulla situazione socio-politica attuale del Belpaese, utilizzando il «Pensa alla patria» come valvola di sfogo; sulle note del rondò, un gruppo di connazionali in lamé e basettoni dall’aria inequivocabilmente beota viene istruito alla civiltà dalla protagonista tramite una primitiva RAI: non manca nulla, dalle pecore dell’intervallo a magniloquenti proclami culturali puntualmente disattesi da frivole immagini successive. Qui però il regista torinese si contraddice, uscendo dal seminato di estrema frivolezza di cui lui stesso aveva scavato il solco e, soprattutto, discostandosi dalla sentita verità del messaggio d’Isabella: «Vedi per tutta Italia/ rinascere gli esempi/ d’ardire di valor». Che almeno ci venga lasciata la flebile speranza che, ora come allora, «Amore, dovere, onor» parlino alle coscienze intorpidite.
Trionfatore assoluto della serata è Alex Esposito, che ricordiamo con tenerezza sette anni fa al ROF sempre in Italiana, ma nei più modesti panni di Haly. Da allora, l’ascesa è stata inarrestabile non solo all’interno del festival pesarese dov’è stato premiato con l’upgrade al ruolo-Galli del bey, ma in tutti i principali teatri europei. La voce è imperiosa e conosce un piccolo intoppo solo nei Sol acuti del «Pappataci Mustafà», e l’attore irresistibile nell’impersonare l’uomo che, perlomeno in apparenza, non deve chiedere mai. Bene anche il Lindoro di Yijie Shi, tenore cinese col volto da bambino gentile, lodevole nel mantenere una linea canora uniforme e nel mostrare spavalderia estrema negli acuti. Anna Goryachova è donna bellissima e si disimpegna con diligenza in tutte le note previste dalla sua parte – sono riaperte anche le colorature che, sulla parola «felicità», fanno da ponte all’ultima frase della cavatina –, ma è assai avara nella ricerca coloristico-espressiva: va da sé che una parte complessa, ricca e innovativa come quella dell’intrepida livornese, così poco interpretata risulti manchevole. La caratterizzazione che Mario Cassi dà del buggerato Taddeo non corre certo il rischio di scadere nel macchiettistico: la recitazione è misurata e assai anonima la resa vocale. Bene i comprimari Davide Luciano (Haly), Mariangela Sicilia (Elvira) e Raffaella Lupinacci (Zulma), mentre la direzione di José Ramón Encinar ha ben poco della levità rossiniana che dovrebbe quasi smaterializzare questa partitura radiosa e vivace in un anelito festante: le agogiche prescelte la fanno rimanere sempre pesantemente ancorata a terra.
Ai cultori del teatro operistico non sembrerà paradossale che l’allestimento più riuscito dell’edizione sia stato quello dell’Occasione fa il ladro firmato nel 1987 da Jean-Pierre Ponnelle, unico ripescaggio nel baule del passato. Ciò a riprova dell’assunto per il quale il teatro, quello vero, non tramonta mai e appare moderno in qualsiasi epoca lo si riproponga. Le soluzioni del compianto Maestro francese, sapientemente riprese da Sonja Frisell, si dipanano con una semplicità disarmante eppur significativa, funzionali, coerenti, delicate, leggere: belle. Da una borsa che è una via di mezzo tra la valigia dell’attore e il bagaglio senza fondo di Mary Poppins vengono estratti come conigli dal cilindro e posti sul palcoscenico tutti i personaggi che animeranno l’azione; la scena è unica e s’ammanta rapidamente di mobilio e d’oggetti d’arredo che servono a distinguere la taverna dove si consuma il preambolo dalla nobile dimora dove si svolge il resto della trama. Grande regista occulto, un poco stratega ed un poco factotum, è Paolo Bordogna quale Martino, cui questi ruoli da simpatico e talvolta inconsapevole burattinaio calzano a meraviglia. Elena Tsallagova è una Berenice dalla voce linda e consistente e dalla gradevole presenza scenica, che però nell’impegnativa «Voi la sposa pretendete» non solo non ha l’acuto in tasca, ma talvolta vacilla anche nella mera intonazione. Enea Scala si districa piuttosto bene nella parte del Conte Alberto, nonostante la sua vocalità sembri un poco prestata alla declinazione contraltina e forse meglio figurerebbe in quella baritenorile; va aggiunto che, nell’aria «D’ogni più sacro impegno», è quasi impossibile staccarsi dall’interpretazione meravigliosamente delirante che ne dava Rockwell Blake (girandole d’agilità con effetto di vorticoso risucchio e messa di voce infinita sull’ultima sillaba), con cui essa quasi s’identifica in maniera imprescindibile. Eccellente la coppia di buffi, con un Roberto De Candia sapidamente a fuoco nei panni di Don Parmenione ed un Paolo Bordogna – ne abbiamo già accennato – perfetto anche in quel sorriso al contempo rassegnato e complice con cui, nel proprio brano «Il mio padrone è un uomo», commenta la diffusa condizione della mediocrità morale come un male inevitabile. Di buon livello gli apporti di Viktoria Yarovaya, palpitante Ernestina, e di Giorgio Misseri, efficace Don Eusebio. Il giovane direttore Yi-Chen Lin (finalmente una donna, e brava!) imprime la giusta dose di garbata verve alla già di per sé effervescente burletta, di modo che la concertazione si configura sia come struttura portante che come ciliegina sulla torta di un’impresa quasi perfettamente compiuta.
Complimenti per l articolo!! Da vera professionista…:-):-)
Ho visto tre volte queste opere e concordo con l’analisi perfetta , chiara e sottile di Ilaria Badino . La sua è, come sempre , una critica onesta , senza la cattiveria che troviamo spesso altronde , eppure dice tutto quello che si deve dire con precisione .Mi permetto di complimentarla .
Claude Fernandez .
… Da presente agli spettacoli non posso che essere d’accordo con questa attenta e precisa recensione .
Festival bello con regie che fanno discutere ma… L’importante é che se ne parli no ?
Anche se non servono complimenti come sempre a Ilaria Badino per la recensione .
Nicholas Tagliatini