Il riallestimento dello spettacolo di Michieletto inaugura la stagione del Teatro Comunale. Alla magistrale concertazione di Mariotti corrispondono due compagnie di canto capitanate dall’intramontabile Kunde
di Francesco Lora
IL BALLO IN MASCHERA DI VERDI CON LA REGÌA DI DAMIANO MICHIELETTO, scene di Paolo Fantin e costumi di Carla Teti, contestato alla Scala nel luglio 2013, ha ora inaugurato la stagione d’opera del Teatro Comunale di Bologna: sette recite dall’11 al 18 gennaio, due compagnie di canto, prime serate accolte serenamente. L’allestimento è stato qui e là semplificato con l’abolizione di qualche controscena, mentre nel più ristretto spazio del Comunale i dettagli si colgono con nuova chiarezza. È difficile ricordarsi dove stia la ragione dello scandalo: si vedono una campagna elettorale anziché l’esercizio di un governatorato, una prostituta e una banda di rapinatori nell’orrido campo, un Oscar che da cherubinesco paggio è convertito in zelante segretaria; e si vede un Riccardo che, caduto morto subito dopo il colpo, canta fantasmaticamente il proprio testamento sulla bocca di Amelia, che legge dal foglio trovatogli in mano. Eppure sono tutti spunti d’analisi o libertà innocue, in un lavoro registico che di norma – e fors’anche senza volerlo – si conserva sorprendentemente fedele al libretto e rispettoso della musica, con la mano felice di chi sta guadagnando terreno nella conoscenza del repertorio operistico e della sua indagine teatrale.
Odore di santità spira dalla bacchetta di Michele Mariotti, ufficialmente insediatosi alla direzione musicale del teatro. Con lui sul podio, la ricerca timbrica, l’ispirazione dei fraseggi e la mobilità agogica attestano l’intesa perfetta con un’orchestra tecnicamente non impeccabile, e che pure lo ama, lo segue, lo asseconda con una dedizione encomiabile. Ne esce una lettura senza esercizio calligrafico e che si fissa nella memoria per semplicità di eloquio, comunicativa franca, ossequio umile alla partitura. Tutta canta dietro un gesto abbadeggiante a piacere, con la sinistra che langue e la destra che disegna: la concessione esteriore termina qui, ché il resto è frutto di uno studio indefesso e capillare, sudato come di rado si ascolta da vecchi leoni spuntati o da frettolosi leoncelli rampanti. L’interprete si fa dunque da parte, svela nuove ragioni di gigantismo dell’autore anziché dar fondo a fantasie personali, mostra così la sua grandezza; in nome dell’equilibrio vede nel segno e invera nel suono ciò che a (molti) altri sfugge.
La cura del lavoro svolto dal concertatore è comprovata da un comprimariato ove nessuna recluta è d’accatto, e ove ciascuno tiene la parte con canto degno di più lussuosa causa: il Samuel di Fabrizio Beggi, il Tom di Simon Lim e il Giudice di Bruno Lazzaretti sono eccellenza. La locandina è capitanata dal Riccardo di Gregory Kunde: tanto sfilacciato nel registro grave quanto svettante in quello acuto, questo gran signore del belcanto romantico, togliendosi a fine carriera lo sfizio dei debutti mai osati, fissa anche a questo turno un alloro per sé e un grattacapo per i posteri. Nobilmente enfatico nell’accento, virilmente appassionato nell’espressione, forbito in Verdi come oggi nessun altro e come già egli stesso in Rossini e Bellini, Kunde dà luogo a un Riccardo ideale: quando l’orecchio si è assuefatto a un registro acuto ancora facilissimo, si incanta ancora al peso teatrale distribuito in ogni nota, sillaba o indugio sospeso tra parola e suono.
Piace assai, al suo fianco, l’Amelia di Maria José Siri, e piace a maggior ragione perché tutta adeguata alla visione registica senza compromettere la musica: donna non più giovane né avvenente, senza abilità di adulterio, sicuro porto umano per uno scapolo potente e solo; introversa, dubbiosa e spaurita, e dunque tenuta omogenea e prudente dal registro grave, mai allargato, a quello acuto, mai esibito, con una raffinata propensione a filare le note. Alla somma, ecco un ritratto di verità toccante, per un personaggio còlto nella sua inesperta fragilità e non nel suo forzato eroismo. Di sicuro riferimento è, a sua volta, il Renato di Luca Salsi, giovanile e infuocato nella recitazione, protervo e insieme sontuoso nel canto: il miglior Verdi baritonale dei nostri giorni, tra le nuove leve, passa prioritariamente per la sua gola. Le lodi si fanno più avare, per contro, verso l’Ulrica di Elena Manistina (dissestata nei passaggi di registro e avulsa dal calore del dramma) e verso l’Oscar di Beatriz Díaz (impegnata sì, ma senza lo scoppiettio che i passaggi virtuosistici pretendono).
Qualche aspetto complementare si trae dalla seconda compagnia di canto: non tanto nel Riccardo di Giuseppe Gipali, tenorilmente baldanzoso e stilisticamente conscio, ma anche scarso di risonanza e monocorde nel porgere; né nel Renato di Marco Caria, che mostra tempra e smalto nell’aria dell’atto III, ma risulta per il resto timido e lontano dalle vampe verdiane; quanto piuttosto nell’Amelia di Virginia Tola, che non è una maestra di sottigliezze ma vanta voce piena, generosa e appassionata, come i floridi soprani verdiani che fino quarant’anni fa infiammavano le platee popolari; e merita l’applauso Julia Gertseva, mezzosoprano cui la parte di Ulrica sta troppo fonda e fosca, e che però conosce assai meglio della Manistina il modo di infondere nella frase italiana fervore teatrale e vividezza musicale. Segreti che, su più vasta scala, sono semplice istinto per il raggiante coro del Teatro Comunale.
Mi trova d’accordo su tutto. Qui è la mia cronaca. http://operaincasa.com/2015/01/15/un-ballo-in-maschera-2/
Nel mio commento manca l’indirizzo del mio blog http://kurvenal.wordpress.com: me ne scuso.
Mi spiace, ma mi trovo in perfetto disaccordo (come peraltro ampiamente spiegato nel mio blog, per chi abbia la pazienza di leggerlo…). Quella di Michieletto non è una scenografia ma una sceneggiatura… A parte il calembour, il problema di ogni regia e scenografia, anche moderna, anche dissacrante, è che deve corrispondere comunque al testo del libretto, per quanto sgangherato e scalcinato possa essere (come nel caso del Ballo). Una vota accettato invece che è possibile scindere testo e scenografia perchè non rappresentare il Ballo in un obitorio, con le salme agghindate in maschera etc. etc. Purtroppo a partire da Bayreuth è oggi invalso fra i registi il concetto che non è importante fare belle regie ma mettere il dito nell’occhio dello spettatore perchè – come diceva Andreotti – è importante essere sulla bocca di tutti, nel bene e – soprattutto – nel male. E” così che la parte di Oscar, così ambigua nel testo, viene ridotta a nulla e francamente rappresentare paraplegici guariti da una santona di stile americano è di un gusto men che discutibile (interrogare un paraplegico in materia…). Se la scenografia è solo una”installazione” da Artefiera allora una plauso a Michieletto ma se si tratta di scenografia zero e lode. E per capire come una scenografia moderna si possa innestare con eleganza e stile in un’opera antica si vada a rivedere l’ultimo “Così fan tutte” della Scala: anni luce di distanza (e di qualità).