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Francesco Micheli racconta il suo “Otello”

di Elena Filini
21 Novembre 2012
in Interviste
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Home Interviste
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Interviste • Il regista dello spettacolo attualmente in scena al Teatro La Fenice di Venezia parla della sua lettura del dramma lirico, su libretto tratto da Shakespeare, che considera il vero testamento operistico verdiano


di Elena Filini


H a raccontato Fidelio dal carcere di San Vittore, Verdi attraverso Mina, attualizzato per i giovani senza strizzate d’occhio ma con la forza della cultura e del mestiere il vetusto armamentario del melodramma, con programmi innovativi come Opera Off e il progetto verdiano firmato per il Massimo di Palermo (Premio Abbiati 2009). Per leggere Otello sceglie Pier Paolo Pasolini: «Figlio mio, noi siamo in un sogno dentro a un sogno». In un venerdì pomeriggio carico di attesa, con gli ultimi puntamenti luci ancora da perfezionare a causa della coabitazione con Tristan und Isolde per la doppia inaugurazione al Teatro La Fenice, Francesco Micheli ci ha raccontato il suo Otello (direttore Myung-Whun Chung, repliche fino al 29 novembre).

Alla base della vicenda c’è l’odio. Un sentimento smisurato che non cova nelle vastità, ma nell’asfissia di una camera da letto. Come ha voluto rendere questo Verdi così novecentesco, che recinta il male dentro le pareti del sé?
«Chiunque si imbatta nella figura di Jago e in genere nella vicenda del Moro non può non farsi solleticare dalla domanda: perché sei così cattivo? Visto che non c’è nulla sottotraccia che possa giustificare un tale cupio dissolvi. Shakespeare, che ben conosce il pubblico e sa prevenirne i desideri, fa dire a Jago in più occasioni le ragioni del proprio odio, ma tendenzialmente non coincidono mai. La più famosa è la più logica: un uomo fedele che si vede usurpare un posto che credeva suo. Una ragione di potere, di ascesa, che può sembrare molto verdiana. Jago però ci dà altre motivazioni, una in particolare detta in soliloquio: io odio Otello perché lui ha voluto farsi i fatti miei sotto le lenzuola».

Una frase che considera strutturale nel dramma, da qui la decisione di dipingerla sul velatino che apre lo spettacolo, e che viene abbinata ad un corsivo di Pier Paolo Pasolini.
«Infatti. Jago aggiunge: non so se sia vero, ma mi piace comportarmi come se lo fosse. Questa idea, cioè che la realtà immaginata possa avere la prevalenza su quella sensibile, ritengo sia il vero colpo d’ala della drammaturgia verdiana. Verdi autore ottocentesco, nel suo testamento operistico (considero Falstaff un allegro addio), anziché ripiegare, ci dà l’ultima grande lezione, proteso nella volontà di disegnare una sensibilità più propria del secolo a venire. Credo che questa ennesima sfida, quando ormai il genetliaco della propria carriera è al completo, sia un grande messaggio per questi nostri tempi difficili che tendono all’involuzione».


La stanza da letto è l’epicentro in cui ragioni affettive e ragioni di stato convergono. In Otello le grandi battaglie non hanno altre vastità che quelle dell’io


Dopo la Parigi à la Tim Burton tra lorettes e assenzio che ci ha regalato con l’allestimento di Bohème dello scorso anno, qual è l’impianto strutturale di Otello, considerato soprattutto che questa messa in scena verrà smontata e portata nel cortile di Palazzo Ducale, come fu nel 1960 per l’interpretazione di Mario Del Monaco?
«Siccome la mostruosità e la natura belluina sono il fattore che emerge, nell’opera, a travolgere l’eroe rinascimentale e il condottiero, desideravo in un primo momento mettere in scena animali; il leone e l’idra mi sembravano i veri protagonisti di Otello. Nel testo però la famiglia lessicale che più spesso emerge è quella legata al cielo, vuoi perché nel momento in cui mancano le certezze si guarda in su, vuoi perché sei un marinaio e devi trovare la rotta. Guardando in su, anch’io ho trovato che l’universo astrale sia popolato da un bestiario che racconta benissimo le forze oscure che nascono dentro di noi ma che dall’antichità tendiamo a proiettare al di fuori. La scenografia è pensata per essere poi spostata a Palazzo Ducale, dove la volta stellata sarà naturale e dove tutti i grandi movimenti saranno realizzati – come qui – dalla geometria molto ricca e direi rocambolesca delle masse».

Nella sua visione di Otello, grande spazio ha anche l’artigianato artistico veneziano. I damaschi di Rubelli e le dorature. Al centro della scena sta infatti un cubo decorato con foglie d’oro. Un luogo bellissimo e asfissiante.
«La stanza è un luogo bipolare: il luogo dell’intimità degli affetti ma anche il luogo del potere, il cubo del palazzo. È l’epicentro in cui ragioni affettive e ragioni di stato convergono. In Otello le grandi battaglie non hanno altre vastità che quelle dell’io. Perciò la stanza da letto è il teatro della battaglia».

Tempeste agite da mano umana, letti da campo. Anche oltre lo spazio dorato del cubo infuria però la battaglia.
«Cipro è un avamposto militare, e tutto è regolato dalla presenza della Serenissima. Lo sfondo della vicenda è la guerra: i personaggi non vivono un tempo di pace: la tempesta, fuoco di gioia, il brindisi sono luoghi di estrema violenza, fonica, semantica. Alla base di Otello c’è un progressivo degrado: fisico e morale. Ma degrado è un termine che viene dall’ambito militare: esibire uomini in armi viene anche dal bisogno di chiarire, anche visivamente, i rapporti gerachici tra i personaggi».

Cultura e spiritualità sono temi molto presenti in Otello. C’è in fondo un Occidente cristiano che accetta di buon grado il cursus honorum di un musulmano convertito. Ma la morte per strangolamento con un grande rosario di Desdemona incrina questa visione di compatibilità.
«L’opera inizia con l’amore di due persone che sembrano capaci di sconfiggere tutti i pregiudizi etnico-razziali e anche religiosi. Due che al termine del primo duetto si dicono un reciproco amen. Rapidamente la malafede porta la coppia a non capirsi più, a non riconoscersi, forse a ripiegare verso l’origine. La frattura diventa uno scontro di cultura: da qui l’idea di usare il simbolo della fede cristiana come strumento di morte».

© Riproduzione riservata

Tags: Francesco MicheliOtelloTeatro La Fenice
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Elena Filini

Elena Filini

Laureata in Filosofia all'Università di Ca' Foscari, diplomata in canto lirico al conservatorio di Verona e in canto barocco al Centre de musique Ancienne di Ginevra, musicista e giornalista. Studiosa di storia della vocalità e del teatro in musica di fine Settecento, collabora con Fondazione Mozarteum di Salisburgo, Teatro La Fenice di Venezia, Teatro Comunale di Treviso, Ente Maria Luisa de Carolis di Sassari, Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi. Iscritta all'ordine dei giornalisti, collabora da un decennio come critico musicale con il quotidiano Il Gazzettino. Tra le pubblicazioni principali: Pèntiti! Milo Manara legge Don Giovanni. Note introduttive alla mostra, Libertini, poeti, avventurieri. I librettisti veneti di fine Settecento, Conversazione musicale con Andrea Zanzotto, Amanti costanti: prima esecuzione in tempi moderni de La Vera Costanza di F.J. Haydn, L'amore ai tempi dell'avvolgibile – Guida ai "Due Timidi" di Nino Rota. Ha pubblicato i libri Musica a Conegliano XIX-XX secolo, Teatro Mario del Monaco di Treviso e Il concorso internazionale per cantanti Toti dal Monte: un quarantennio di debutti a Treviso. È invitata da Zecchini editore a curare alcune voci per la prossima guida dedicata alla Musica da Camera, in uscita nel 2012. È docente di canto lirico ed arte scenica all'Istituto "A. Miari" di Belluno, dipartimento provinciale del conservatorio di Vicenza. È docente ospite ai corsi d'interpretazione musicale di Monte San Savino.

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Commenti 2

  1. Samuele De Mauri says:
    11 anni fa

    Bellissima intervista, grazie!!!

    Rispondi
  2. Piero Micheli says:
    11 anni fa

    Ma quante banalità, luoghi comuni, midcult, pseudo originalità. Che strazio.

    Rispondi

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