di Michele Manzotti foto © Roberto Ricci
Quando si parla di Georges Bizet viene subito in mente il suo capolavoro, Carmen. Ma il compositore francese, nato nel 1838 e scomparso nel 1875, ha lasciato altra produzione per il teatro in musica degna di essere conosciuta e apprezzata. Tra questa Les pêcheurs de perles (I pescatori di perle) del 1863 si impone per grande invenzione melodica e struttura drammaturgica, tanto da essere stato il primo successo operistico del compositore. Il lavoro andrà in scena all’Opera di Firenze a partire da mercoledì 24 febbraio (ore 20, cinque rappresentazioni in tutto, info www.operadifirenze.it). A dirigere Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino sarà Ryan McAdams con la regìa di Fabio Sparvoli. Proprio a quest’ultimo chiediamo alcuni dettagli sull’allestimento già proposto al Teatro Verdi di Trieste.
Non le chiedo un parere da regista, ma da ascoltatore sul fascino di questo lavoro…
«Per me questa opera è più bella di Carmen. Inoltre Les pêcheurs de perles ha avuto anche la sfortuna di molte rielaborazioni successive che hanno appesantito la versione originale. Il personaggio di Zurga ad esempio veniva fatto morire, cosa che il pubblico non vedrà a Firenze. In questo allestimento abbiamo fatto un lavoro filologico di recupero della prima versione che ripulisse le cose superflue aggiunte negli anni».
Quali sono gli elementi da evidenziare?
«La cosa più interessante è l’orientalismo di facciata, un po’ come quello di Salgari che scrisse delle Indie senza muoversi da casa. Basti pensare che il soggetto originale era ambientato in Perù, mentre l’opera si svolge a Ceylon e in India. In Francia d’altra parte Napoleone aveva fatto scoprire il fascino dell’Egitto di cui non si sapeva ancora niente. C’era dunque l’idea di un oriente mai visitato».
Quindi è un lavoro che risente fortemente dell’epoca?
«In fondo questo oriente è collegato alla decadenza di un periodo ottocentesco, caratterizzato anche da fumerie d’oppio e dall’assenzio: siamo all’alba della rivoluzione industriale e dell’esposizione universale che vedrà a Parigi la costruzione della Tour Eiffel. Simile a un’era prima dell’avvento di Internet, per fare un paragone».
Ci sono solo quattro personaggi, il regista come si trova da un punto di vista drammaturgico?
«Intanto va detto che il coro è spesso presente, mosso dalle deità indiane Shiva e Brahma, interagendo con i protagonisti. Ognuno dei quattro personaggi è un mondo a parte e noto molta ambiguità nel rapporto tra i giovani Nadir e Zurga tra i quali si insinua Leila. Come ho detto prima Zurga non muore, anzi mentre gli altri scompaiono dalla scena, lui esce dalla scena dove si chiude il sipario. Simbolo di un viaggio verso un mondo nuovo che se ne lascia dietro uno che muore».