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Dalle zone di frontiera di cent’anni di musica, il programma della Biennale di quest’anno sceglie figure rappresentative, innovative e provocatorie del passato a confronto con la più recente produzione contemporanea
di Patrizia Luppi
P uò essere visto come una mostra, il programma della Biennale musica di quest’anno. Una vetrina di oggetti disparati, selezionati nella produzione dei cent’anni più recenti, disposti gli uni accanto agli altri nell’armonia di richiami interni oppure giustapposti fino allo scontro. Il festival veneziano si estende tra gli atteggiamenti “minimalisti” e “massimalisti” che occupano le regioni più lontane, le zone di frontiera della produzione musicale; è il neodirettore Ivan Fedele a spiegare che il tema di questa edizione ha «come focus l’indagine e la presentazione di alcuni significativi attori di questi orientamenti estetici estremi, contestualizzati e messi a confronto con i “classici” del radicalismo “miniMAX” della più o meno recente storia contemporanea».
Tra i molti percorsi individuabili, c’è una sorta di catalogo di di innovazioni e provocazioni del passato oggi ormai metabolizzate. Ad esempio, nei concerti che abbiamo ascoltato nei primi tre giorni (il cartellone è molto ricco, tre o quattro appuntamenti quotidiani), un brano come Five More String Quartets (1991-93) di Phil Niblock, enorme cluster di 25 minuti – affidato nella giornata inaugurale al Quartetto Prometeo – la cui massa di suono apparentemente quasi uniforme si rivela mano a mano, all’ascolto, circondata da uno sfarfallio di armonici e mossa da microvariazioni tonali; o, nella serata di ieri, I Am Sitting in a Room di Alvin Lucier, con l’81enne compositore in scena per questo suo lavoro di più di quarant’anni fa: la registrazione di alcune frasi parlate diffusa e riregistrata una serie di volte, finché la risonanza ambientale prende il sopravvento, rendendo inintelligibili le parole e producendo un nuovo suono. Ma carattere estremo hanno pure creazioni di un passato ormai secolare: pensiamo all’icasticità delle Sei Bagatelle op. 9 di Webern, affidate al Quartetto Danel; all’opposto, ci si è accostati alla proporzione monumentale dei lavori del Feldman più maturo con il suo ultimo pezzo Piano, violin, viola, cello (1987), eseguito in prima italiana dal Quartetto Klimt.
La qualità dei gruppi da camera fin qui citati (e di altri come l’ensemble Alter Ego, nel concerto dedicato a Lucier e a tre esponenti della nuova musica americana, Tristan Perich, Sean Frier e Mario Diaz de Leon), come quella dei solisti coinvolti nei vari programmi, si è dimostrata molto alta; meno convincente la compagine orchestrale che la Biennale anche quest’anno ha ingaggiato, come nelle edizioni scorse, in una logica di rapporto con il territorio: la FGV Mitteleuropa Orchestra del Friuli Venezia Giulia, sostenuta domenica sera dall’esperto direttore Pierre-André Valade nel confronto con l’aleatorietà del Concerto per pianoforte e orchestra di Cage (ormai un classico del compositore estremo per eccellenza), in Fachwerk di Sofia Gubaidulina per bayan, orchestra d’archi e percussioni e nelle novità, una italiana l’altra assoluta, di due compositori di solido mestiere come Bettina Skrzypczak e José Luis Campana: è parso che l’orchestra friulana avesse studiato la lezione con diligenza, ma la realizzazione era inferiore alle aspettative.
Sempre nella serata di domenica, il percussionista Simone Beneventi ha interpretato uno degli ultimi lavori di Cage, One4 per percussioni, del 1990. Questa sera, Beneventi proporrà invece un programma costruito intorno a Golfi d’ombra di Fausto Romitelli, uno degli autori più estremi e interessanti che la musica italiana abbia conosciuto negli ultimi decenni, e prima ci aspetta un concerto di nuova musica russa. Vi riferiremo.
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