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Il direttore russo ha inaugurato la stagione della Società del Quartetto di Milano alla guida dei giovani dell’Orchestra dell’Accademia della Scala. Grande calore di affetto e passione in un’atmosfera di coinvolgimento. In programma opere di due compositori classicissimi del suo repertorio
di Cecilia Malatesta
Y uri Temirkanov è capace di infiammare il suo pubblico come pochi direttori d’orchestra sanno fare. Non si esaurisce il suono dell’ultima nota del Pas de deux della Suite da Lo Schiaccianoci che i “Bravo” e gli applausi scroscianti dei fan temirkanoviani – numerosi e accaniti quasi quanto quelli di Abbado – investono la Sala Verdi del Conservatorio. Ben noto al pubblico milanese, le cui orecchie ancora risuonano dell’Aleksandr Nevskij presentato all’ultima edizione del Festival MiTo con la “sua” Filarmonica di San Pietroburgo – l’orchestra con la quale debuttò quarantacinque anni fa e di cui è dal 1988 direttore artistico e principale – il direttore russo torna a Milano ospite per la prima volta della Società del Quartetto ad inaugurarne la stagione, questa volta alla guida dell’Orchestra dell’Accademia della Scala. Due pagine che hanno fatto la storia della musica, una Suite da Lo Schiaccianoci di Čajkovskij – del quale non mancano le imprescindibili Danses e la Valse des fleurs – e la trascrizione di Ravel dei Quadri di un’esposizione di Musorgskij, a dir poco stra-sentita, ma delle cui meraviglie timbriche, in fin dei conti, ci si fa fatica a stufare.
Temirkanov dirige con il solito piglio sicuro, un gesto chiarissimo e morbido, preciso e avvolgente allo stesso tempo; poco c’è da aggiungere alle note qualità musicali che non si finiscono di elogiare. Sembra facile, però, mietere successi quando si tratta della Filarmonica di San Pietroburgo, o della Sinfonica di Baltimora, con la quale il direttore ha lavorato dal 2000 al 2006; un po’ meno quando ci si trova innanzi ad una compagine di giovani certamente di talento – plauso ai fiati, degni di nota il primo flauto e le trombe dall’intonazione impeccabile – ma visibilmente in soggezione davanti al direttore e non esenti da qualche incertezza. E invece Temirkanov riesce a scaldarli e a trasmettere quella sicurezza e quell’entusiasmo che sono alla base della sua concezione musicale: nulla può funzionare se non si trovano la bellezza e l’emozione in ciò che si suona. Dal podio li guarda e li segue uno per uno: non li abbandona un momento; cerca, guida, incoraggia, ed infine premia con un lungo applauso, strette di mano e abbracci sinceri dopo un finale a dir poco trionfale. E se ogni volta le campane de La grande porta di Kiev fanno correre i brividi lungo la schiena, non capita spesso – anzi, sempre meno, e ce ne sarebbe quanto mai bisogno – di assistere ad un’esecuzione dove vi sia tanta considerazione, affetto e rispetto reciproco tra podio ed orchestra.
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