[wide]

[/wide]
Al Teatro alla Scala ha avuto grande successo il nuovo allestimento dell’opera wagneriana con la direzione di Barenboim, un pregevole cast e una regia tecnologica e movimentata
di Luca Chierici
D ue Tetralogie scaligere non certo memorabili, quella incompiuta di Sawallisch-Ronconi degli anni ’70 e quella di Muti-Engel-Kokkos dipanatasi tra il 1996 e il 1998, hanno contribuito a evidenziare l’eccellenza dell’operazione che Daniel Barenboim sta portando avanti dal 2010 e che troverà il suo compimento nel 2013 con Götterdämmerung e la proposta dell’intero ciclo nell’arco di una sola settimana “à la Bayreuth”. La lunga esperienza di Barenboim come direttore wagneriano, la presenza di un cast di tutto rispetto e, nel bene e nel male, la regia e le scene di Guy Cassiers e Enrico Bagnoli con il fondamentale contributo video di Arjen Klerkx e Kurt D’Haeseleer hanno contribuito l’altra sera al successo incontrastato di un Siegfried che ha registrato vere e proprie acclamazioni da parte del pubblico al termine di ogni atto. Un successo che alla Scala non si assaporava da tempo, neppure nel repertorio italiano più consolidato e affine ai gusti nostrani, e che è davvero il termometro di un processo di rinnovamento che la direzione musicale di Barenboim ha contribuito a sviluppare in questi anni nel teatro milanese.
Il tenore canadese Lance Ryan alterna la voce squillante dell’Heldentenor a un canto più dolce e vibrante, ricorrendo a volte a un falsetto che conclude in maniera ammaliante certe frasi di conversazione, dimostrando un gusto personale del fraseggio wagneriano
Nella lettura del grande direttore si è apprezzata innanzitutto la tenuta del lungo arco narrativo del Siegfried e la straordinaria tensione espressiva che è stata alla base di una realizzazione memorabile dei punti di accumulazione del capolavoro wagneriano: nei finali d’atto, soprattutto, ma anche nella affascinante e stupefatta scena del risveglio di Brünnhilde, nei complessi interventi del Wanderer, nel lungo racconto di Mime, nella scena della foresta. Barenboim dà l’impressione di una scelta di tempi particolarmente incalzanti che probabilmente si rivelerebbe, a un’analisi cronometrica, solamente frutto di un gioco sapiente di tensioni e distensioni. Allo stesso tempo la sua attenzione nei confronti dell’orchestra wagneriana non si limita al raggiungimento di un suono omogeneo “in buca”, ma porta a sottolineare gli interventi strumentali più significativi con una chiarezza sbalorditiva e una dovizia di dettagli che ci hanno fatto ascoltare particolari nuovi o da altri del tutto trascurati. La presunta “liricizzazione” della lettura wagneriana di Barenboim è in realtà la somma di questi elementi, che porta a un risultato di rilievo assoluto, oggi ineguagliato. Un sostegno “fisico” alle intenzioni del direttore è stato concesso dall’orchestra della Scala, cui domanderemmo solamente una maggiore cura nei pur difficili passaggi dei corni, peraltro uno dei simboli indimenticabili di questa partitura che nel Sigfrido guerriero e nei suoi leitmotiv trova gran parte del suo fascino.
Eroe in ogni senso della serata, il tenore canadese Lance Ryan è il Sigfrido di questi anni, non dotato di un timbro particolarmente affascinante ma neppure di una emissione troppo fissa e inespressiva. Ryan alterna la voce squillante dell’Heldentenor a un canto più dolce e vibrante, ricorrendo a volte a un falsetto che conclude in maniera ammaliante certe frasi di conversazione, dimostrando un gusto personale del fraseggio wagneriano che non segue pedissequamente la “tradizione”. Qualche segno di affaticamento dopo la quinta ora di presenza sul palcoscenico era visibile in lui solamente nell’apparenza fisica (suo grande punto di forza, del resto, che gli giova certamente nel gradimento del pubblico) e non nella prestazione puramente vocale. Siegfried arriva alla rupe ove è Brünnhilde al termine di un viaggio faticosissimo che lo ha portato tra le altre cose a confrontarsi vittoriosamente col terribile (ma non per lui) Wurm. E vi arriva dopo trecento pagine di una delle vocal scores più impegnative per un tenore. Brünnhilde si risveglia invece dopo un lungo riposo e la amatissima Nina Stemme ha portato una ventata di freschezza vocale ed espressiva che ha aggiunto un nuovo memorabile tassello a questo capitolo wagneriano in scena alla Scala.

Bravi tanto da far apparire quasi tollerabili i malvagi e antipatici Mime e Alberich, Peter Bronder e Johannes Martin Kränzle (quest’ultimo già presente nel Rheingold del 2010) hanno anch’essi evitato i luoghi comuni, in questo caso rappresentati da una tristemente nota emissione nasale e lagnosa, rispettando una linea di canto che non può certo fare appello alle migliori qualità timbriche di un interprete. Terje Stensvold è stato un Wanderer autorevole anche se scenicamente un poco ingessato, Anna Larsson ha confermato, in breve, la non eccelsa prestazione del Rheingold, Alexander Tsymbalyuk ha dato voce a un drago che la regia e le scene non facevano apparire poi così terribile, e che davvero terribile non appare mai, dato che il pubblico sa benissimo alla fine chi vince e lo fa fuori con un colpo bene assestato. Di non certo trascurabile importanza è stata Rinnat Moriah nella Stimme des Waldvogels, sorta di Knabe che traghetta l’eroe alla destinazione finale.
Dall’immobilità esasperante della regia di Ronconi, la Scala è approdata dopo quasi quarant’anni a una miscela di movimenti, luci, colori che dal punto di vista tecnologico è giustamente figlia dei nostri tempi e che bene si presterebbe a commentare la complessa drammaturgia del Ring. Commentare, e non interpretare, cosa che sarebbe assai più difficile visto che l’impronta wagneriana è tale da lasciare poco spazio a nuove ipotesi di lettura. Ci si era provato giustappunto Ronconi con la sua traslazione al mondo borghese della Germania di fine ’800 e i richiami all’oro del moderno Capitalismo, con una realizzazione che era davvero interessante e stimolante sulla carta quanto poco riuscita dal punto di vista strettamente teatrale. Qui il team che fa capo a Cassiers avrebbe potuto giocare ben altre carte, ma si è limitato ad alcune trovate di regia (una per tutte, il mantice utilizzato da Sigfrido per alimentare il fuoco che forgerà Nothung, trasformato in un neon che l’eroe muove come se si trovasse a esibirsi in una sfrenata lap dance) o a effetti cromatici di un certo impatto (il Drago ridotto a una proiezione multicolore di squame). Lo stesso Drago era visualizzato da un inutile drappello di mimi che facevano ondeggiare un grande telo, espediente questo che si vedeva in qualsiasi spettacolino ai tempi dei collettivi di sinistra negli anni ’70. Meglio allora i siparietti di spade che incorniciano la fucina di Mime, elemento di novità che peraltro veniva negativamente compensato dall’immancabile rupe di Brünnhilde, che la fantasia di registi e scenografi moderni non è capace di sostituire con qualche altro elemento più allusivo. Tutta la cornice del primo atto, tra scena e costumi cuoio-latex di Tim van Steenbergen, assomigliava poi a un locale gay di periferia di qualche città metropolitana, con le ingombranti piattaforme metalliche sulle quali un Siegfried macho e tutt’altro che sprovveduto si esibiva in un complesso rapporto sado-maso con il povero Mime, lisciandosi spesso la lunga criniera come una pop-star.
© Riproduzione riservata
[aside]
SIEGFRIED
Nuova produzione
Dal 23 Ottobre al 18 Novembre 2012
Durata spettacolo: 5 ore e 15 minuti
Cantato in tedesco con videolibretti in italiano, inglese, tedesco
DIREZIONE
Direttore
Daniel Barenboim
Regia
Guy Cassiers
Scene
Guy Cassiers e Enrico Bagnoli
Costumi
Tim van Steenbergen
Luci
Enrico Bagnoli
Video
Arjen Klerkx e Kurt D’Haeseleer
CAST
Siegfried
Lance Ryan
Mime
Peter Bronder
Der Wanderer
Terje Stensvold
Alberich
Johannes Martin Kränzle
Fafner
Alexander Tsymbalyuk
Erda
Anna Larsson
Brünnhilde
Nina Stemme
Stimme des Waldvogels
Rinnat Moriah
Danzatori
Yuta Hamaguchi
Albert Garcia Sauri
Christophe Linéré
Uri Burger
Gabriel Galindez Cruz
[/aside]