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Opera • Al Théâtre des Champs-Élysées l’opera di Bellini è stata eseguita in forma di concerto con gli esemplari complessi dell’Opéra di Lione e la direzione di Evelino Pidò
di Riccardo Rocca
C on una tournée dei complessi dell’Opéra di Lione, I Puritani di Bellini sono tornati alla loro natia Parigi (1835), all’interno della prestigiosa serie “Opéra en concert” del Théâtre des Champs-Élysées, straordinaria opportunità per il pubblico parigino di ascoltare quanto di meglio viene prodotto nelle maggiori case d’opera europee. L’Opéra di Lione è appunto una di esse, tra le quali si distingue per eclettismo e qualità della programmazione.
Particolarmente in questo repertorio è raro ascoltare un’orchestra ed un coro dalle sonorità così compatte, omogenee e ricche di preziosismi. Ad Evelino Pidò va riconosciuto, nonostante alcune scelte discutibili in termini di tagli, il merito di un lavoro straordinario di cesello, quasi maniacale nella sottolineatura e nel controllo di ogni dettaglio. Ogni singola entrata delle sezioni, con la propria specifica dinamica, è stata perfettamente determinata a vantaggio dell’insieme con risultati di rara limpidezza. Il lavoro di Pidò ha assunto tanto più valore nella misura in cui esso si è svolto sulle pagine della nuova edizione critica dell’opera che, curata da Fabrizio Della Seta, riporta alla luce molti aspetti dell’orchestrazione – e non solo, naturalmente – sui quali si è depositata una lunga e talvolta deviante tradizione. La concertazione di Pidò, tuttavia, forse proprio come effetto collaterale di cotanta misurata organizzazione, ha lasciato trapelare una certa severità generale, tanto virtuosa in certo Rossini serio, ma in qualche modo estranea a quel soffio romantico che è parte integrante dell’universo belliniano, e dei Puritani più che di ogni altra sua opera. Accanto ad alcune meraviglie come il tremolo di una rarefazione quasi bruckneriana ottenuto dall’orchestra a supporto della voce di Elvira nella pazzia, avremmo dunque ascoltato volentieri più chiaroscuri, più mezzetinte nei fiati, sonorità meno chiassose nei momenti militareschi e, in ogni angolo della partitura, qualche fraseggio più morbido e rilassato: per un Bellini, parafrasando Luigi Nono, dalle tinte lunari e silenziose.
Di notevole interesse il debutto nel ruolo dell’eroina protagonista di Olga Peretyatko, artista in rapida ascesa sulle scene più prestigiose. Creata da Giulia Grisi, la parte di Elvira le sta come un guanto in termini di tessitura ed espressività: alla riuscita dell’interpretazione della Peretyatko ha contribuito non soltanto una speciale vena di dolcezza e fragilità che contraddistingue ogni sua interpretazione, ma anche una tensione espressiva mantenuta ad alto livello pure in momenti di silenzio, come ad esempio durante quel fade-out orchestrale genialmente composto da Bellini alla fine di «Vien, diletto, è in ciel la luna». Vocalmente esuberante l’Arturo di Dmitry Korchak, privo però di quella morbidezza ad alta quota che il ruolo rubiniano per antonomasia richiederebbe. Pietro Spagnoli (Sir Riccardo) ha affrontato con professionalità, ma pure una certa circospezione, una parte estranea al suo abituale repertorio, mentre Michele Pertusi (Sir Giorgio) ha offerto lodevole riprova delle proprie pacifiche virtù interpretative. Un plauso conclusivo merita ancora la qualità eccelsa dei complessi lionesi.
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Sono contenta di sapere del successo di questi Puritani tanto attesi sin dalla loro apparizione nei cartelloni dell’Opéra de Lyon e del TCE. Non posso che concordare con Riccardo riguardo al giudizio espresso su Pidò; anche a me perplime il suo approccio severo al repertorio che viene considerato internazionalmente quello in cui brilla di più, ossia l’intero Belcanto, quando in realtà le sue scelte s’attanagliano bene al Rossini serio, ma molto meno ai palpiti ed ai turgori protoromantici che l’ultimo capolavoro belliniano esige. Per contro, mi sembra ottimo nel cogliere queste sfumature Roberto Abbado, il quale anche nel Rossini napoletano, poi, sottolinea coloristicamente certi slanci emotivi attraverso la preminenza accordata ad alcuni particolari strumenti (penso ad esempio alla sua Donna del lago prima parigina e poi milanese, in cui i fervori del duetto “Cielo! In qual estasi” erano meravigliosamente resi da un bollore impaziente del clarinetto). Mi fa piacere apprendere del buon esito della prova della Peretyatko, che è artista che seguo con interesse sin dagli albori, quindi dalla sua Corinna nel Viaggio a Reims dell’Accademia pesarese del 2006. Mi sembra di aver capito che Korchak non abbia eseguito il Fa sovracuto, ma sarei curiosa di sapere se ha mantenuto o meno l’idea di tensione verso l’empireo nel “Credeasi misera”, come lo spartito vorrebbe, quindi distinguendo le due frasi finali.
Esattamente, Korchak non ha eseguito il Fa, ma ha cantato solo la seconda volta il Re bemolle, nel tentativo di conservare l’effetto. Purtroppo però Bellini non ha previsto il Fa per caso: infatti solo con una nota inaudita in quella sede l’effetto funziona, visto che nel duetto appena precedente Arturo ci fa già sentire ben due Re naturali! I momenti migliori di Korchak sono sembrati l’ingresso e la canzone del trovatore.