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Opera • Il celebre regista al San Carlo di Napoli: tra suggestioni d’Oriente l’allestimento non osa, buono il cast, notevole la direzione del giovane Michele Mariotti
di Bianca De Mario
[Egrave] con un omaggio a Verdi che il San Carlo inaugura la nuova stagione lirica ed il titolo più celebre del compositore delle Roncole registra, ancora una volta, il tutto esaurito sino all’ultima replica. Complice certo la notorietà di Ferzan Ozpetek, alle prese per la seconda volta (dopo l’Aida fiorentina del 2011) con una regia d’opera. Una Traviata tanto attesa quanto discussa, la sua.
Ispirato in parte da Proust, in parte da Zeffirelli, il regista colloca la vicenda sullo sfondo di una Parigi belle époque che riecheggia l’Oriente ad ogni angolo: dalle vesti di Violetta ai narghilè, dai tessuti damascati dei salotti alle mezzelune sospese alle pareti. Tutto resta tuttavia un richiamo coloristico e, sebbene a volte ci si chieda se ci troviamo davvero in un salotto francese piuttosto che in un boudoir turco, il filo si perde nel corso dell’opera e sembra non condurre in una direzione precisa.
Che sia proprio questo l’intento? In parte sembrerebbe proprio di sì, soprattutto se si guardano le scene di Dante Ferretti che si svuotano dal primo al terzo atto: dall’opulento salone di Violetta passiamo, infatti, al giardino della casa di campagna, una sorta di serraglio, dominato da un alto muro sullo sfondo e riparato da bianchi tendaggi tesi a mo’ di parasole. Da qui si passa facilmente al salotto di Flora, che aggiunge a questo spazio una splendida scalinata di marmo bianco: Violetta vi sale allontanandosi, vestita di nero, alla fine del secondo atto, dopo l’offesa di Alfredo, cristallizzata in uno splendido tableau. Al cinema Ozpeteck ammicca di continuo nel terzo atto quando la scena è completamente vuota e compare, rivolto verticalmente verso il pubblico, il letto pallido illuminato da una fredda luce bianca. Ad effetto anche gli incubi di Violetta: un occhio di bue che appare e scompare sui volti, sulle smorfie che hanno assistito alla sua umiliazione. Bella idea, peccato che la musica suggerisse tutt’altro in quel punto: non più le risate della festa, non ancora la festa del bue grasso, ma soltanto la solitudine di quella camera ed il silenzio del suo riposo, preannuncio di ben altro sonno.
L’idea sembra essere allora proprio questa: dallo sfarzo del mondo esterno alla nuda interiorità della protagonista. Né la ricchezza di Parigi, né il sapore d’Oriente servono più. È il suo volto, quello prestatole in quest’occasione da Carmen Giannattasio, ad essere proiettato sul sipario durante il Preludio. Ed è il suo corpo ad alzarsi dal letto, sul finale, ad avanzare verso il proscenio, per accasciarsi davanti ai nostri occhi, lontana dagli altri. Sola.
La Giannattasio ci offre una Violetta sui generis: forte e seducente, solare ed accorata al tempo stesso. Dopo qualche incertezza in esordio, dovuta forse alla stanchezza dell’ultima recita, la sua voce si fa apprezzare per le sfumature coloristiche dei vari registri e regala momenti di grande emozione al pubblico partenopeo. La palma va anche al Germont di Vladimir Stoyanov, vigoroso ed ineccepibile. Il rapporto tra i due personaggi è al centro dell’attenzione di Ozpeteck: è l’abbraccio ritrovato di un padre dopo il conflitto che ha causato la catastrofe. Poco convincente tanto per il gesto vocale, spesso affrettato, quanto per quello scenico, poco preciso, è invece Tomislav Mužek, il secondo Alfredo, che sa tuttavia strappare generosi applausi al suo pubblico. Bene anche la Flora di Daniela Innamorati e l’Annina di Bernadette Lucarini. Il giovane Michele Mariotti, alla testa dell’Orchestra stabile del San Carlo, dirige a memoria cantando l’intera opera: è attento alle dinamiche, brillante nei contrasti chiaroscurali e davvero convincente in almeno un paio di momenti, quali l’uscita di scena di Violetta nel secondo atto e l’ingresso di Alfredo, nel terzo.
È insomma sempre la musica a parlare, molto più di quanto non faccia la scena. Alcune delle idee di Ozpetek sono buone ma non sempre sembrano seguire una direzione fino in fondo; in parte sembrano bloccate, non osano abbastanza. Né infamia né lode. Poco male, si dirà, per l’eroinapiù ‘traviata’ nella storia della regia d’opera. Peccato invece per un’opera che offre sempre nuovi preziosi suggerimenti, il classico che ad ogni ascolto si rinnova. Peccato perché anche in scena questo poteva essere uno di quegli incontri che ti cambiano la vita, a suo modo, una bellissima fata ignorante.
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