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Concerti • All’Auditorium del Lingotto si è ascoltata, con la “Quinta” di Mahler, la “Symphonie funèbre” del quasi dimenticato Joseph Martin Kraus, contemporaneo di Mozart. Dirigeva Daniel Harding
di Attilio Piovano
S conosciuto per lo più al pubblico dei normali e pur assidui frequentatori di concerti, Joseph Martin Kraus – detto il Mozart di Odenwald dove il padre era esattore – fu in realtà musicista di ottimo livello, ancorché non un genio: operista dalla buona cultura e dalla scrittura “informata” sul trend della musica europea, nonché autore di svariate pagine strumentali. Sicché la presenza di un suo brano in programma, l’altra sera presso l’Auditorium Agnelli del Lingotto a Torino, in occasione del concerto della Swedish Radio Symphony Orchestra per I Concerti del Lingotto, costituiva senz’altro motivo di interesse. Davvero curiosa la vicenda biografica di questo singolare musicista nato nello stesso anno di Mozart (il 1756) e sopravvissutogli di un anno soltanto: morì infatti a Stoccolma nel 1792. Che cosa ci facesse un sassone in Svezia nella seconda metà del ’700 è legittimo domandarselo. Ebbene, Kraus si trasferì a Stoccolma nel giugno del 1778 e vi rimase poi il resto della sua pur breve vita come maestro di cappella di re Gustavo III. Che lo ebbe in grande considerazione, lo sovvenzionò e lo sostenne con munifica generosità e lungimiranza, inviandolo a scopo di studio in tutta Europa (sicché il buon Kraus poté visitare Dresda e Lipsia, Erfurt e Ratisbona, poi fu anche a Trieste, Venezia, Bologna, Roma, Parigi e Londra e conobbe personaggi della levatura di Haydn, Gluck e Salieri). Nella primavera del 1792 Gustavo III venne gravemente ferito da una masnada di congiurati durante una festa mascherata e morì pochi giorni dopo: l’episodio – circondato da un alone romanzesco, dacché ai motivi politici verosimilmente se ne sovrapposero altri di natura personale – sarà poi all’origine dell’opera di Auber Gustav III ou le bal masqué (1833), del Reggente di Mercadante (1843) e soprattutto del verdiano Ballo in maschera (1859). Ed è proprio per quel cruento regicidio che Kraus (presente alla festa stessa) scrisse una Symphonie funèbre (VB 148), nella cupa tonalità di do minore, destinata ad essere eseguita durante le esequie. Già gravemente malato di tubercolosi, Kraus morì a sua volta nel dicembre di quello stesso 1792, pochi mesi soltanto dopo la tragica scomparsa del suo benefattore. C’è materia per una fiction come si usa oggi. E le musiche dello stesso Kraus potrebbero benissimo costituirne una tutt’altro che banale colonna sonora.

Kraus fu infatti compositore di prim’ordine e questa sua Symphonie funèbre lo rivela a chiare lettere: tagliata in quattro brevi movimenti, tutti ovviamente di andamento pacato. Già nel brunito Andante mesto che apre la Symphonie si sprigiona un clima di fantomatica opacità, con quel timpano dai rintocchi soffocati che risuonano poi ancora in chiusura, in bilico tra la mozartiana Musica funebre massonica K 477 ed aperture sull’ormai incipiente sensibilità targata Sturm und Drang. Ed i validi professori d’orchestra della Swedish, guidati dalla bacchetta di Daniel Harding, hanno mostrato di eseguire con particolare partecipazione (e forse anche un pizzico di commozione e comprensibile orgoglio nazionale) questa pagina toccante, frutto della creatività di un loro concittadino onorario, fitta di espressive seste napoletane e dolenti armonie, fosche e plumbee. Appena un poco più disteso il clima del successivo Larghetto, qua e là memore di arcadiche convenzioni, poi il corale «Lätt oss then kropp begrafven» e da ultimo il più ampio finale che comprende una frase cantabile del corno e così pure un fugato (invero di corto respiro). Bene la curata lettura di Harding e molto bene la resa sonora della Swedish, per l’occasione a ranghi ridotti e con strumenti barocchi.
Poi il piatto forte della serata, vale a dire l’inossidabile Quinta di Mahler che – si sa – proprio con una celeberrima Trauermarsch esordisce. La Swedish è complesso di buon livello, benché non raggiunga i vertici, per dire, dei massimi complessi internazionali come i Berliner o la Philharmonia. Gli archi, in particolare, hanno un timbro un poco anonimo, li avremmo voluti più soffocati, più struggenti, in una parola più emozionanti (molto bene invece gli ottoni). Harding ancora una volta tende a leggere in maniera iperanalitica e in Mahler, se pure se ne giova l’emersione dei singoli timbri, per contro viene meno il senso della continuità e talora, come nella Trauermarsch, anche l’intensità. Lettura iperanalitica anche dello Stürmisch, che pure costituisce sempre una bella vetrina per l’orchestra (ed una vera e propria cartina al tornasole). Ma occorrono più abbandoni, ci vuole quel senso del grottesco che di Mahler è una vera firma, e ancora più profondità e maggior senso della “prospettiva”. Più convincente lo Scherzo, mentre nell’Adagietto Harding sembra aver timore di cadere nello sdolcinato e allora finisce per attenuarne (quanto meno in parte) l’intensità e il pathos. Anche il finale è parso bisognoso di maggior cura in sede di concertazione, per agglutinare meglio i timbri, per mettere a punto certi raccordi ritmici. E così quelle reminiscenze del tema sublime dell’Adagietto che qua e là riaffiorano come galleggiando nel flusso psichico sono parse un po’ tirate via, private di quella souplesse che non può essere messa tra parentesi. Immancabile finale verdiano a chudere idealmente il cerchio con Kraus (ovviamente il Preludio dal Ballo in maschera): se convinceva la giustezza del fugato, mancava però (a nostro avviso quasi del tutto) la cantabilità italiana, insomma il sound verdiano.
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gentile Sigried (… o Sigfrid… o…) intanto grazie per aver postato questo commento interagendo con la rivista. Poche note soltanto: l’analiticità di Harding non esclude certo la raffinatezza, ci mancherebbe… Vero e sacrosanto, Boulez lo è ancora di più (ma sa trasmettere emozione). Sinopoli e Abbado: personalmente a me il compianto e pur grande Sinopoli analogamente non comunicava grandi emozioni (non me ne vogliano i mahleriani doc), con Abbado è un altro paio di maniche. L’Adagietto: è stato certo impeccabile, non posso che concordare, quanto a precisione ed esattezza. Resto della mia idea che (pur senza cadere come taluni in eccessi e sdolcinature) un po’ più di intensità e pathos ci stia bene. Ed ora gli archi della Swedish: forse la scelta di avvalermi dell’aggettivo ‘anonimo’ non è stata delle più felici e forse dalla mia postazione qualcosa poteva essere falsato (in termini acustici), resto dell’idea che timbricamente altre orchestre posseggono una pasta di grana differente, tutto qui (non è questione dunque q mio avviso di suono più o meno ‘contenuto’ ). Che Harding diriga con coscienza di causa è una verità che anche monsierur Lapalisse… ci mancherebbe: personalmente sento Mahler in maniera diversa, tutto qui. Sul fatto poi di mettere tre parentesi i propri gusti personali è una vexata quaestio. La critica parte sempre da presupposti soggettivi, per ovvi motivi, ognuno ha modelli di riferimento (magari direttori diversi per i singoli movimenti di una Sinfonia). Come nel caso dell’analisi musicale. Scriveva il saggio, arguto e pragmatico Malipiero: «l’analisi musicale si presta sempre ad interpretazioni equivoche poiché nel condurla nessuno è obiettivo, tutti partono da un punto di vista personale fondato su pregiudizi». Sul mettere a tacere i propri gusti che (testuale, secondo il lettore) devono rimanere ‘anonimi’, permettetemi, dunque: ho forti perplessità. Prendere posizione su una interpretazione mi pare doveroso (e onesto). Così come mi pare doveroso (e onesto) cercare di motivare le proprie posizioni,come già in altra occasione ho tentato di affermare. Credo di averlo fatto anche nel caso della Swedish e del valido Harding. Tutto qui. Ancora grazie al lettore per aver stimolato un pacato scambio di opinioni e un’ultima annotazione (stilistica). Un vecchio maestro di giornalismo esortava a fare un uso estremamente parsimonioso dei punti esclamativi, segnoa suo dire di ‘pessimo’ giornalismo. È una regola che mi sono dato da decenni e che cerco di osservare, per rigore nei confronti di me stesso, non potendomi permettere di agire altrimenti, contrariamente al lettore che – ça va sans dire – di punti esclamativi ne può usare quanti crede (l’eqivalente letterario di uno strabuzzamento di occhi o qualcosa del genere, I suppose). Con simpatia.
Harding superanalitico? e allora Boulez che cos’è? l’esecuzione di Harding è stata raffinata (non analitica). Chi l’ha detto che Mahler debba essere eseguito con più abbandono e con più senso del grottesco (come faceva Bernstein?) ! allora dovremmo liberarci di grandi interpretazioni come quella di Sinopoli, di Abbado etc…..L’adagietto è stato eseguito in maniera impeccabile da Harding che ha proprio evitato di sovraccaricare d’intensità e pathos come si faceva una volta e ora quasi più nessuno fa! (soprattutto i grandi direttori!) Il suono degli archi della SRSO non era per niente anonimo, io l’ho trovato splendido: se era contenuto è semplicemente dovuto alla scelta di Harding che è il suo modo usuale di concertare Mahler!! forse può non piacere lo stile di Harding, ma questo è il suo modo di fare musica, e lo fa con coscienza di causa….e non si può fare una critica obiettiva se intervengono i propri gusti personali che come tali dovrebbero rimanere anonimi!!