
Opera • In scena al Carlo Felice l’opera di Verdi. Ma anche scompiglio: il direttore d’orchestra ha richiamato l’attenzione sulla situazione di precarietà in cui versa l’istituzione genovese
di Ilaria Badino
Un futuro senza musica, l’impoverimento culturale delle prossime generazioni. È l’inquietante scenario che prospetta, a conclusione della lettura di un accorato comunicato, Fabio Luisi, genius loci proiettato da anni nell’empireo dello star system internazionale (è direttore principale al Metropolitan di New York e direttore musicale all’Opernhaus di Zurigo). L’altra sera a Genova, dunque, l’evento principale s’è svolto pre-recita, quando Luisi, seguito a ruota dal rappresentante dei sindacati, ha esplicitato l’accresciuta precarietà in cui versa la massima istituzione culturale di tutta la Liguria ponendo l’accento da un lato sull’allarmante situazione contingente e, dall’altro, sulle sorti musicali a lungo termine della città. Il direttore d’orchestra genovese spiega come i lavoratori abbiano propeso per una risoluzione pacifica, non distruttiva quale sarebbe stato uno sciopero, rispettosa delle esigenze di un pubblico accorso foltissimo al richiamo del glamour sprigionato dal titolo sempreverdiano: andare comunque in scena cercando di garantire lo standard qualitativo più alto possibile. Va decisamente più sul pesante e addentro al dettaglio, non lesinando nomi e taglienti commenti, il portavoce delle maestranze: non risparmia nessuno, dal sovrintendente Pacor al presidente della Regione Liguria Burlando, ovviamente senza dimenticare il sindaco Marco Doria. In effetti sorprende negativamente che il primo cittadino di una delle principali città d’Italia, per legge (e molto probabilmente più per forza che per amore) anche presidente della fondazione lirico-sinfonica della Superba, non fosse presente all’ultima première stagionale, anche considerato il fatto che, nella città che s’è scientemente assunto il compito di governare, quella stessa sera non hanno avuto luogo altri avvenimenti di rilievo che l’abbiano allontanato dai doveri morali cui tale carica lo lega a doppio nodo. Sconcertante constatare quanto le istituzioni politiche dell’Italia contemporanea – non se ne vuole qui fare una questione di Destra e di Sinistra, che ci paiono disinteressate in egual misura alla materia, con un contegno d’allibente e spensierato menefreghismo – si allontanino sempre più dalle proprie prestigiose filiazioni musicali, le quali dovrebbero essere ritenute «orgoglio e vanto» (tanto per rimanere in tema), nonché punto di partenza per innescare importanti circoli virtuosi soprattutto (e qui sta il nodo gordiano!) economici. Situazione dolorosa e veramente paradossale per il Paese che al melodramma, forma d’arte osannata in tutto il mondo, ha dato i natali.

Quasi di sottofondo, in questa serata che ha fatto scaturire riflessioni di più ampio e drammatico respiro, l’esecuzione di una Traviata in ogni caso interessante per più di un motivo. In primo luogo per il cast omniligure, perlomeno nelle parti principali: la Mariella (Devia) nazionale, imperiese, quale Violetta; i genovesi Francesco Meli (Alfredo Germont), Roberto Servile (Giorgio Germont) ed il già citato Fabio Luisi (a tenere le fila dell’orchestra). Possiamo parzialmente far nostre le remore che Verdi palesò all’indomani della prima di Traviata, consapevole di aver avuto a disposizione un soprano non del tutto rispondente alle esigenze drammatiche richieste ed un baritono di gloriosa fama (quel Varesi che aveva precedentemente sostenuto in prima rappresentazione i ruoli di Macbeth e Rigoletto), ma affaticato. Incredibile come l’affresco della prima assoluta somigli, per certi versi, a quello che si è dipanato ieri. Mariella Devia, infatti, come al solito elargisce una magistrale lezione di canto, con tutti i pregi ed i limiti che questa comporta: forte di una dovizia tecnica da manuale non scalfita dal passare degli anni, la cantante di Chiusavecchia rende perfettamente ogni singola nota (non siamo così fiscali da formalizzarci di fronte ad una puntatura urlacchiata al Mi bemolle sovracuto nel finale del prim’atto tenuta in modo pervicace ma, sfortunatamente, non riaggiustatasi) e, in un’ottica globale, leviga il fraseggio ad amplissime campate, prestando somma attenzione ai segni dinamici che fanno del terz’atto il suo momento più convincente. L’attrice, inoltre, è sempre più audace e tonica: invidiabili la mise in guêpière nel primo preludio, che la tradizione corrente vuole ormai registicamente commentato (Grinda non ci risparmia nemmeno il dettaglio della visita ginecologica ad una signorina che con la Valéry condivide il mestiere più antico del mondo), e lo stacco di coscia, maliziosamente facente capolino da un setoso abito rosso fragola, da cui parte un colpo secco ad una sedia nella cabaletta «Sempre libera» (memore delle scarpe lanciate in aria dalla Callas nella Traviata scaligera firmata Visconti?). Eppure si percepisce la mancanza di una totale e sincera immedesimazione nel personaggio, probabilmente anche complici una mimica monotona tendente all’accigliato ed una carenza d’incisività nel registro medio-grave, che suona un poco cavo.
Servile, che è stato artista di razza fino a qualche anno fa, forse a causa di scelte di repertorio non adeguate si ritrova in possesso di uno strumento liso, che sdrucciola in acuto e che incappa in difficoltà nel tratteggiare l’ampia cavata necessaria al baritono verdiano; peccato, date le meraviglie che era in grado di eseguire agli inizi del Duemila ed i mordenti in cui s’è prodotto in «Un dì, quando le veneri», di rado così ben scanditi.
Il vero mattatore della serata è stato Francesco Meli, finalmente liberatosi dal fardello delle parti rossiniane (soprattutto di quelle baritenorili) e felicemente approdato a quelle di tenor giovane del repertorio del pieno Ottocento, in cui la sua generosa, sfrontata natura trova completa rispondenza. Già convincente Nemorino ed Edgardo (a noi era sembrato anche ottimo Don Ottavio e Ferrando, ma lui stesso ebbe a dire che non si trova comodo in quei ruoli e, dato che la voce è un fatto eminentemente fisico e personale, la sua parola vale cento volte la nostra), sguazza nel palpito romantico del prode e non poco naïf tenore verdiano, da Gabriele Adorno a Jacopo Foscari, passando per il Duca di Mantova. Naïf proprio come Alfredo nella sua adolescenziale concezione dell’amore, totalizzante, manichea e sprovveduta, memore dell’Armand Duval dumasiano, così poco cognito dell’universo femminile che non riesce a capacitarsi del motivo per il quale l’amata cortigiana esponga per venticinque giorni al mese camelie bianche e solo nei restanti cinque camelie rosse. La voce s’è fatta inebriantemente sonora, torrenziale, rotonda oltre ogni più rosea speranza; le sfumature in piano, infine, non sono più un problema: Meli ormai smorza che è un piacere. Davvero onore al merito.
Senza infamia e senza lode i comprimari, efficace la regia di Jean-Louis Grinda (ma lungi dall’essere geniale). L’allestimento, piuttosto tradizionale, diventa interessante quando sottolinea l’imperante fallocrazia travestita da illusorio ed effimero trionfo del libertinismo femminile, ossia nel prim’atto a casa di Violetta, quando tutti gli ospiti – dame comprese – sono ammantati in abiti virili, e nella pantomima del secondo quadro del second’atto in occasione del ricevimento chez Flora Bervoix, allorché i nerboruti danzatori brutalizzano la leggiadra «andalusa giovinetta» (plauso doveroso ai danzatori del DEOS). Piuttosto kitsch, invece, l’apparizione fantasmatica della sorella di Alfredo a percorrere lo sfondo della scena con tanto di plateale richiamo di Germont père sull’attacco di «Pura siccome un angelo». Si sono registrate alcune diacronie del coro (nell’incipit cantato dell’opera, in «Si ridesta in ciel l’aurora»); tra i momenti più elevati della direzione di Luisi, invece, annoveriamo il concertato alla fine del second’atto, condotto con maestosità vibrante, il Preludio del terzo e l’accompagnamento impalpabile all’«Addio del passato». Preme concludere con una brevissima considerazione. Noi teatranti per diletto e per professione lo sappiamo bene: lo spettacolo deve continuare. Ma per quanto potremo farlo, ancora, in queste condizioni d’abbandono?
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