Enzo Restagno, prima del concerto diretto da Zubin Mehta, ha ricordato gli anni trascorsi con il compositore e musicologo alla direzione artistica di Settembre Musica
di Attilio Piovano
[Egrave]ORMAI NOTTE FONDA e da pochissimo siamo rientrati dal concerto conclusivo di MiTo, al Lingotto, con l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino diretta da Zubin Mehta. Ne scriviamo a caldo, ancora emozionati per l’eccezionalità della serata e, nel contempo, per le circostanze di questa giornata. In apertura – inatteso – il direttore artistico Enzo Restagno, introdotto dallo stesso Zubin Mehta, ha preso la parola per annunciare la morte, poche ore prima, di Roman Vlad, avvenuta quest’oggi, 21 settembre. Quasi in contemporanea il sovrintendente dell’OSNRai Michele Dall’Ongaro, in occasione del concerto per l’apertura del Prix Italia diretto da Valcuha, dava il medesimo annuncio al pubblico convenuto all’Auditorium Toscanini.

Il grande musicologo di origine rumena avrebbe compiuto 94 anni il prossimo dicembre e il pubblico torinese che affollava l’Auditorium Agnelli del Lingotto ha accolto la notizia con palpabile e sincerissima commozione. Vlad per molte stagioni infatti aveva condiviso con Restagno la direzione del Festival quando ancora si chiamava Settembre Musica; Vlad che aveva insegnato a generazioni di studenti e di musicofili ad amare la musica del Novecento, ad amare e comprendere Stravinskij, in particolare, del quale fu uno dei più raffinati ed acuti studiosi; sicché dedicargli il concerto ha assunto un significato davvero particolare. Il clou del programma lo stravinskijano Sacre che Vlad così tanto amava e così profondamente conosceva; solamente poco tempo addietro – lo ha ricordato Restagno – uscì un suo saggio dedicato proprio all’analisi del capolavoro che esattamente un secolo fa destò un incredibile scandalo a Parigi. Che singolare circostanza: la morte di Vlad annunciata quasi all’unisono in due sale torinesi dove, per un caso fortuito, quasi all’unisono e pressoché in contemporanea si è eseguito il Sacre.
Di Vlad ricordiamo la cordiale comunicativa, il sorriso amabile e la fluente conversazione, con quel suo speciale accento bleso che aveva conservato, pur dopo una vita trascorsa in Italia, e quel suo modo musicalissimo di pronunciare – per dire – Beethoven, appoggiando vistosamente sulla doppia ‘e’ per sfumare poi dolcemente. Quanti ricordi di conferenze che si traducevano in lezioni di stile, in positive iniezioni di cultura, quante conversazioni durante le quali mescolava musica e letteratura con la naturalezza e la nonchalance dei grandi. Quella stessa naturalezza che Zubin Mehta possiede nel dirigere. E dirigere per intero a memoria il Sacre non è cosa da tutti i giorni. Raramente ci è accaduto di ascoltare dal vivo un’interpretazione così lucida e partecipe, analitica nei minimi dettagli, ma nel contempo con l’occhio alla vasta struttura del capolavoro.
L’Orchestra del Maggio possiede una perfezione tecnica assoluta, prime parti eccellenti a livello dei massimi complessi mondiali. Nessuna sbavatura ritmica, tutto in primo piano e pur tuttavia mille dettagli perfettamente a fuoco. E allora ecco gli scuotimenti tellurici della prima parte e gli immani memorabili clangori che cento anni fa tanto scalpore destarono. Ma anche i pallori e le rarefazioni della seconda parte culminante nella Danza dell’Eletta che suggella la superba partitura. Aggiungere aggettivi ed elogi sarebbe ridondante e così pure affermare che conserveremo a lungo il ricordo di questa memorabile serata parrebbe una frase fatta, ma è così. E in apertura si è ascoltato con pari interesse un binomio schönberghiano di infinita rilevanza, vale a dire i Fünf Orchesterstücke op. 16 del 1909 seguiti dalla Kammersymphonie n° 1 op. 9 di tre anni innanzi: sagace accostamento volto a porre in luce aspetti determinanti dello sfaccettato panorama musicale di primo Novecento, ormai pienamente storicizzati. E desta ammirazione l’affettuosa cura riservata da Mehta ai Cinque pezzi, la sua certosina acribia nel porne in evidenza il carattere aforistico, il gioco dei timbri non meno dei nessi strutturali. Superlativa poi la prova fornita dalle prime parti nell’impervia op. 9 dalle trasparenti linee, esecuzione serrata senza che mai venisse meno la dovuta tensione. Vero trionfo ed ovazioni di pubblico a fine serata: e dire che si trattava di un programma non certo di facile ascolto. Agli insistenti applausi Mehta ha volentieri risposto con un sorriso, annunciando con voce stentorea: «Ed ora un brano del tutto tonale» e subito le note di una tra le più amate ed eseguite Danze Slave di Dvořák (la n° 5 in sol minore) hanno iniziato a fluire con zampillante freschezza. Quella stessa freschezza che Vlad conservò fino a tardissima età. Grazie Roman per averci insegnato ad amare la musica, per averci insegnato a smontare e rimontare le strutture formali con inflessibile rigore metodologico, ma anche ad abbandonarci all’emozione che sempre i suoni e la grande musica suscitano.
© Riproduzione riservata