
Opera • È andato in scena con successo al Teatro Bellini il titolo di Gaetano Donizetti
di Santi Calabrò
CHE LE INTERPRETAZIONI EFFICACI DI UN’OPERA d’arte siano infinite è evidente non tanto dalle presunte letture definitive, ma da quelle che non possono neanche lontanamente sembrarlo: in certi casi, persino da una prospettiva limitata, un’opera rinnova con evidenza la sua prismatica ricchezza. Né Rosanna Savoia, né Emanuele D’Aguanno, a Catania in Lucia di Lammermoor, esibiscono una vocalità che possa far pensare a una realizzazione da paradigma dei rispettivi ruoli, o anche a una buona imitazione di interpretazioni che appaiono definitive.
La Savoia ha un’emissione rotonda e controllatissima, con un volume contenuto: mezzi tanto idonei alla corda lirica di Lucia, quanto estranei a quella drammatica. D’Aguanno ha voce elegante, tendente al “tenore di grazia” (di quelli che solo a sentire un vocalizzo dici “Ernesto” e non certo “Edgardo”, per restare dalle parti di Donizetti); il suo timbro, adatto a scambiare giuramenti teneri, non lo è altrettanto per evocare casi bellici o per affrontare il tremendo Enrico, che lo aborrisce già prima di pensarlo potenziale cognato. In confronto al soprano, D’Aguanno osa di più quanto ad apertura della paletta interpretativa, ma l’Edgardo “ideale” resta un tenore lirico, con una grana più pastosa. Con queste premesse, la produzione trasmette dunque la nostalgia della voce perduta? Assolutamente no: lo spettacolo è godibilissimo. Semmai, si riapre il disagio per lo spazio (ben poco, en passant) dedicato a Donizetti nel fondamentale libro La generazione romantica di Charles Rosen.

Ma quel cruccio lieve ed insidioso – che ben conosce chi ama sia Donizetti, meraviglioso musicista, che Rosen, autorevole saggista e musicologo scomparso da poco, e vivo sempre – si riformula come un dato represso, riconosciuto e sublimato assistendo a questa Lucia: le voci di Savoia e D’Aguanno evidenziano proprio il fatto che Donizetti è, non meno di Bellini seppure in modo diverso, una colonna e una quintessenza del romanticismo. Un Edgardo dalla grana poco virile ma dallo slancio indomito può diventare ancora più furiosamente espressivo; e nel sestetto celeberrimo i limiti di volume non impediscono ai sentimenti di Lucia di filtrare intatti da quell’apoteosi del teatro musicale romantico, dove varie disposizioni scatenano il conflitto nei personaggi mentre su tutta la scena si abbatte un cataclisma “sociale”. Leonardo Catalonotto dirige con accuratezza; la prova dell’orchestra è buona e «non senza pazzia»: bravo anche il flauto solista che accompagna la scena fatale, ben resa dal soprano. Su una scena di landa desolata la regia di Gabriele Ferro ritrova nel gusto gotico non solo una scaturigine, ma anche una monade del più denso romanticismo successivo. Abbastanza bene il resto del cast, dove Piero Terranova (Enrico) esibisce apprezzabile duttilità; malissimo la situazione del Teatro. Le recite sono precedute da un corteo funebre in platea: il Teatro è moribondo (niente stipendi da mesi, bilanci e programmazione 2014 nelle mani del destino). Alla Regione Siciliana il compito di scongiurare il disastro.
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