Contemporanea • Il festival romano si è chiuso nel segno del compositore tedesco con la prima assoluta Le Ceneri di Gramsci su testo di Pasolini; l’Ensamble Musikfabrik interpreta in modo egregio un post-modernismo mai lirico o intimista, più grottesco e sensuale
di Daniela Gangale
CHIUSURA IN GRANDE STILE per il cinquantesimo festival romano Nuova Consonanza: venerdì 13, sul palco della Sala Accademica del Conservatorio ceciliano, l’Ensamble Musikfabrik, diretto da Peter Rundel, e il baritono Dietrich Henschel hanno regalato al pubblico romano una prima assoluta del compositore tedesco Manfred Trojahn su testo di Pasolini, Le Ceneri di Gramsci. Abbiamo già avuto occasione di scrivere in precedenza quanto il festival 2013 si sia espresso con un articolato programma, il cui filo rosso è stato l’omaggio ai compositori che hanno fatto la storia tanto dell’associazione quanto della musica contemporanea nell’ultimo mezzo secolo; il concerto conclusivo è stato una delle punte di diamante del programma e ha offerto non solo una serata di estrema qualità, grazie ad uno degli ensemble più apprezzati tra quelli che si dedicano al repertorio contemporaneo, ma anche l’opportunità di comporre un vero e proprio ritratto a tutto tondo di Trojahn, uno fra i maggiori compositori della scena contemporanea.
Nuova Consonanza lo ha infatti invitato a tenere un workshop di quattro giorni all’interno del progetto De Musica e poi lo ha fatto conoscere personalmente al pubblico, attraverso una lunga intervista che ha preceduto il concerto condotta da Francesco Antonioni, compositore e voce di Radio Tre. Durante il dialogo sono emersi numerosi elementi che hanno aiutato a comprendere alcune delle scelte relative alle Ceneri di Gramsci, tra cui il rapporto ambivalente con l’Italia, paese che ora è familiare e “quasi ovvio” per Trojahn, ma che al primo impatto nel 1979, quando l’artista trascorse alcuni mesi a Roma come borsista dell’Accademia di Villa Massimo, fu molto meno amichevole. La complessità di una città come Roma, in cui la storia si avvolge su stessa in contraddizioni senza fine che comprendono bellezza e squallore, esplorata con crudo realismo dalla poesia di Pasolini, è la dimensione che Trojahn ha lasciato decantare dentro di sé per anni facendone il filtro attraverso il quale guardare il nostro paese; Le Ceneri di Gramsci, un’opera forte e struggente in cui la voce narrante si rivolge ad una lapide, interrogandosi sul senso della storia e sulla possibilità (o sull’utopia?) di poter agire in essa, sono quindi la base per la costruzione di un ciclo di Lieder dal sapore post-moderno in cui la voce viene trattata come scarno supporto al testo, nell’intento di far parlare la musicalità stessa della parola, senza nessuna indulgenza al lirismo o all’intimismo. La parola di Pasolini, ruvida e scabra, viene quasi recitata, scandita nella maggior parte dei sei brani che costituiscono la composizione ed è accostata ad una scrittura strumentale asciutta, a tratti rarefatta a tratti più densa e intrecciata, all’interno della quale il clima prevalente è quello di una cupa angoscia, di un senso di oscura attesa. La musica sembra aprirsi e diventare più comunicativa solo nell’ultimo brano, quando Pasolini indulge nella descrizione di una Roma quasi felliniana e dà l’opportunità a Trojahn di colorare anche la propria partitura con i toni del grottesco e del sensuale. Il pubblico attento e competente ha salutato il compositore con un lungo applauso, tributando alla conclusione del festival il meritato successo.
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