In scena al Teatro alla Scala l’opera di Verdi con la regia di Hugo de Ana e la direzione di Daniele Rustioni
di Luca Chierici
LA RIPRESA DI UNO SPETTACOLO di impronta tradizionale già allestito alla Scala per l’apertura del 7 dicembre del 2000 ha richiamato l’attenzione su un titolo oggi rappresentato in maniera inversamente proporzionale alla sua popolarità. All’interno della cosiddetta trilogia popolare Il trovatore è l’opera certamente meno avveniristica, dove lo scavo psicologico dei personaggi è ancora poco marcato e dove il musicista sembra gettare un ultimo sguardo affettuoso e malinconico al melodramma romantico che aveva dominato le scene nei due decenni precedenti. Un melodramma dove i protagonisti sono considerati in funzione delle loro contrapposizioni sentimentali, a propria volta derivate da contrapposizioni di ruolo puramente vocale. Ma in questo capolavoro vi è forse più musica che in Rigoletto e Traviata, nel senso che la successione di cavatine e cabalette, di cori, di concertati si sviluppa in maniera così polimorfa da porre in secondo piano il dipanarsi di una vicenda già a quei tempi poco credibile e da attirare inevitabilmente l’ascoltatore in una vertigine di melodie indimenticabili eppure spesso simili tra loro per impianto. Non vi è forse opera verdiana che nel corso dell’Ottocento abbia al pari di questa sollecitato la fantasia di trascrittori e arrangiatori, a dimostrazione del fatto che qui il materiale melodico e armonico vive di vita propria e come tale assume un significato di paradigma assoluto.
Il trovatore mal si presta dunque agli esperimenti di regìe cervellotiche, che poco avrebbero a che fare con i contenuti strettamente musicali del lavoro. In questo caso le scelte di Hugo de Ana erano già apparse efficaci quindici anni fa proprio per avere evitato qualsiasi intervento che deviasse minimamente dalla tradizione e si erano apprezzate più che altro sul versante scenico, con i frequenti richiami a suggestioni pittoriche di un certo fascino. Conoscenza della tradizione, questa volta dal punto di vista vocale e strumentale, è altresì richiesta al direttore, che non può far altro che seguire con passione e intelligenza un solco tracciato in più di centocinquant’anni di esperienze acquisite, a volta sotto la bacchetta di grandissimi protagonisti del podio. Il poco più che trentenne Daniele Rustioni ha seguito il discorso verdiano dall’inizio alla fine con grande partecipazione e evidente emozione intensa, lasciando ai cantanti il compito di dipanare secondo la propria sensibilità linee vocali famosissime e appunto per questo soggette a inevitabili confronti. Non si capisce, da nessun punto di vista, perché a lui si sia rivolta la disapprovazione rumorosa di parte del loggione al termine della recita. Disapprovazione che era invece del tutto giustificata nel caso del Conte di Luna di Franco Vassallo, della cui prestazione preferiamo tacere, e solo parzialmente in quello di Ekaterina Semenchuk, che ha avuto un solo momento di default del tutto imputabile al caso e che si è rivelata una Azucena tutto sommato godibile. Autentiche ovazioni finali, oltre agli applausi durante lo svolgimento dell’opera, sono state tributate ai due protagonisti, Marcelo Àlvarez e Maria Agresta, ambedue perfettamente a proprio agio nel ruolo e soprattutto dotati di caratteristiche vocali e interpretative che si pretenderebbero come ingrediente di base per ogni cantante verdiano che si rispetti. Àlvarez e la Agresta hanno convinto il pubblico anche per la loro consapevole umiltà nell’affrontare due ruoli così impervi senza che la loro personalità travalicasse il carattere dei personaggi da loro portati in scena. Lode in tal senso va tributata al Ferrando di Kwangchul Youn e menzione d’onore al coro istruito da Bruno Casoni.
«Maestro Von Karajan mi abbassi la pira che l’anno prossimo le facciamo la Bohème in tono» diceva l’impareggiabile FV nel personaggio della moglie del tenore Animelli. Anche qui la cabaletta «Di quella pira» era trasposta di mezzo tono, ma per fortuna in pochi se ne sono accorti, a riprova che certi luoghi comuni della lirica sono oggi più che mai desueti e del tutto trascurabili.
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