In scena una produzione del Met risalente al 2007 con la regia di Mary Zimmerman. Apprezzata la direzione di Pier Giorgio Morandi
di Luca Chierici
IN QUESTO PERIODO DI PASSAGGIO DI CONSEGNE la programmazione del Teatro alla Scala sembra simbolicamente ondeggiare tra le proposte di nuovi spettacoli, discutibili quanto si vuole, e la presentazione di messe in scena più tradizionali come questa Lucia del 2007, importata dal Met, a firma di Mary Zimmerman con le scene di Daniel Ostling e i costumi di Mara Blumenfeld. Il tradizionale fa rimpiangere il nuovo non perché si assiste a qualcosa di sostanzialmente già visto, ma perché le possibili cadute di gusto appaiono in questi casi più nocive che non all’interno di una produzione d’avanguardia e volutamente provocatoria. E le cadute di gusto c’erano, da quelle sceniche (la scena finale del cimitero dei Ravenswood, una caricatura di certe ambientazioni da film dell’orrore di Vincent Price) a quelle registiche: nella scena della pazzia, spogliata di ogni fascino e appesantita da elementi caricaturali, la protagonista viene addirittura soccorsa da medici e infermiere che le praticano una iniezione di calmante per attenuarne gli sproloqui e le risatine isteriche o forse per far fuori un personaggio divenuto oltremodo scomodo. Eh no signori, le folli eroine dell’opera romantica – e in particolar modo le sublimi donizettiane – vanno lasciate sole e libere nelle loro esternazioni perché la pazzia è simbolo di genio, di virtuosismo canoro e strumentale, di esaltazione assoluta. Il Valium somministrato in dosi da cavallo lasciamolo da parte, per favore. E non insistiamo nel ricordare la banalizzazione della scena del Sestetto, uno dei capolavori assoluti del musicista e punto di accumulazione di tutti gli accadimenti maturati fino a quel momento nel corso della vicenda: la complessa sovrapposizione di voci e di caratteri tra loro contrastanti, uno dei raggiungimenti virtuosistici massimi nel teatro d’opera italiano fin dai tempi di Rossini, viene qui interpretata come difficoltà da parte di un fotografo con tanto di cavalletto nell’accomodare in un’unica inquadratura quelli che dovrebbero essere i protagonisti di un ritratto ufficiale a ricordo delle nozze di Lucia e Arturo.
A dispetto di questi elementi, lo spettacolo è andato avanti senza alcuna protesta da parte del pubblico grazie alla complessiva qualità della compagnia di canto e all’abile concertazione di Pier Giorgio Morandi, direttore affidabile, buon conoscitore della migliore tradizione italiana ed esperto accompagnatore. A lui si deve una lettura onesta e soprattutto efficace nel condurre per mano i cantanti e il coro verso un risultato di assieme di un certo pregio. Ai tagli di prammatica, che hanno disturbato più di uno spettatore, si aggiunge in questa edizione del capolavoro donizettiano la rinuncia all’utilizzo della glass harmonica nella scena della pazzia, scelta primitiva del compositore che ben descriveva l’atmosfera spettrale di tutto il contesto e che era stata proposta durante le recite dirette da Roberto Abbado otto anni orsono.
Protagonisti del franco successo della serata sono stati però soprattutto i cantanti tutti. Quello di Lucia è un ruolo che ha dietro di sé una storia talmente ricca di interpretazioni memorabili da richiedere oggi un ripensamento alla luce di tutti i contributi offerti fin dalla prima rappresentazione da cantanti entrate nel mito, che a loro volta hanno lavorato consciamente o inconsciamente nel trasformare le caratteristiche vocali originali del soprano leggero o di coloratura e nell’approfondire i caratteri del personaggio approdando talora, tipico è il caso della Callas, ad esiti molto lontani da ciò che era nelle intenzioni del compositore. Eroi ed eroine dell’opera assumono nel tempo una specie di vita propria, ed è anche in questo senso che possiamo attenderci delle sorprese nel futuro di un genere di spettacolo votato alla ripetizione di se stesso. Albina Shagimuratova è però incapace di andare al di là della tradizione ottocentesca e ci restituisce una Lucia vocalmente ragguardevole dal punto di vista tecnico, almeno quanto basta a strappare il convinto applauso del pubblico, anche se il discorso si riduce alla fine a una serie di virtuosistici gorgheggi e di pur perfette e intonate puntature. Anche sotto l’aspetto puramente tecnico – nullo è l’apporto della soprano in quello interpretativo, soprattutto nell’atto terzo – non ci sembra però che questa artista possa offuscare ben altri contributi che ci è capitato di ascoltare negli ultimi trent’anni in questo stesso teatro. Come spesso accade Vittorio Grigolo eccede in espressività, calca la mano nel delineare la figura di Edgardo al punto di trasformare la sua sortita nella scena del contratto nuziale in una sorta di rusticano regolamento di conti (ma qui c’è sicuramente ancora lo zampino della regista) e singhiozza un poco più del dovuto. Ma la voce è lì, è bella e indubbiamente affascinante. Se Grigolo imparasse a limitare i suoi giovanili ardori, anche nel momento degli applausi finali accolti con un balzo in avanti fuori luogo, forse ci resterebbe più simpatico… o forse non sarebbe più Grigolo. Massimo Cavalletti è stato un Enrico di grande carattere, Juan Francisco Gatell un Arturo non indimenticabile.
Lucia di Lammermoor | Teatro alla Scala | 1 Febbraio 2014
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