di Giuseppe Pennisi
IL PRIMO DI FEBBRAIO dovrebbe andare in scena al Teatro dell’Opera di Roma l’atteso dittico L’heure espagnole e L’enfant et les sortilèges di Maurice Ravel, in coproduzione con il Festival di Glyndebourne. Anche se negli ultimi anni le due opere si sono potute ascoltare a Palermo, Ancona e Verona, mancavano nella capitale da diversi decenni. Vengono proposte nel migliore dei modi: la produzione segna il debutto romano del regista Laurent Pelly, nome di prestigio sulla scena internazionale, ed il ritorno di Charles Dutoit, una delle migliori bacchette francesi. Affascinanti le scene e divertenti i costumi degli animali e degli oggetti (che si animano e diventano protagonisti). Buono l’adattamento dal palcoscenico relativamente piccolo di Glyndebourne e quello, molto più grande, del teatro lirico romano. Il condizionale è d’obbligo poiché la prima in programma il 30 gennaio è saltata a ragione di uno sciopero di parte dell’orchestra. Si era pensato – gli scioperi alle prime vogliono dire perdita di abbonati – di fare lo spettacolo con l’accompagnamento solo del pianoforte, ma il pianista era tra gli scioperanti, non se ne è trovato un altro che conoscesse le due partiture e Dutoit è di formazione violinistica. Quindi, tutti a casa.
La situazione finanziaria è gravissima. Il 9 gennaio, a dieci giorni dal suo insediamento, il nuovo Sovrintendente, Carlo Fuortes, ha convocato una conferenza stampa per fare un’operazione verità sulla situazione finanziaria dell’ente. «Il pre-consuntivo 2013 – ha detto– mostra un disavanzo di 10 milioni di euro su un budget di circa 50 milioni di euro». Le determinanti, spiega, sono un aumento dei costi del 10% (rispetto al preventivo) e una contrazione dei ricavi di 4,2 milioni di euro. «Negli ultimi tre anni la situazione è gradualmente peggiorata, con un tracollo della biglietteria». Le tabelle fornite mostrano altri aspetti inquietanti: forte indebitamento con il fisco e con gli istituti previdenziali, fornitori che attendono di essere pagati, numero dei dirigenti dimezzato (da 4 a 2) ma con un costo più che raddoppiato, una pianta organica (ora decaduta) molto più ampia di teatri le cui recite sono quattro volte quelle dell’Opera di Roma. Il 9 gennaio Fuortes ha annunciato: «Ce la faremo, ma senza ricorso alla Legge Bray e una profonda riorganizzazione, non ci sarebbe stata altra strada che la liquidazione» (anche a ragione della forte contrazione della dotazione di capitale della fondazione). Dopo la prima seduta del nuovo Consiglio d’Amministrazione, la fondazione (priva, pare, di liquidità) è corsa a fare ricorso alla Legge Bray che le fornirebbe a breve 5 milioni di euro a fronte di un piano che prevede la riduzione dell’organico (nessuno resterebbe a piedi; gli ‘esuberi’ andrebbero a lavorare alla Ales, azienda in-house del Ministero dei Beni Ambientali Culturali), ed una revisione del contratto integrativo.
Occorre precisare che non tutte le sigle sindacali hanno aderito allo sciopero (che ha comportato anche l’annullamento del concerto in programma in 31 gennaio). Da un lato Slc-Cgil, Fials-Cisal, Libersind-Confsal confermano il blocco di tutte le prime in programma, compresa la tournée in Giappone. Dall’altro, la Uilcom ha preso le distanze. «In questi ultimi anni – sostiene la Uilcom – il teatro è stato governato come fosse una colonia da utilizzare per interessi che nulla hanno a che vedere con la produzione di arte, musica e spettacoli. Dietro la copertura, discutibile, di personaggi stimati, alcuni sindacati hanno difeso e avallato ogni scelta per trarne un consociativismo volto a interessi diversi da quelli aziendali. Tali determinazioni hanno portato al tracollo economico e finanziario ben evidenziato dalla attuale dirigenza». Insieme alla Uilcom anche la Fistel Cisl di Roma e del Lazio ha preso le distanze dallo sciopero, definendo irresponsabili le sigle che l’hanno proclamato. «La loro rappresentanza è veramente minimale, anche se coinvolge componenti dell’orchestra», sostiene la Fistel Cisl, che ricorda invece come all’Opera si sia «aperto un tavolo di confronto dove la Fondazione espone un percorso di gestione dei contenuti della legge e un piano di salvataggio e di rilancio del teatro».
In effetti, se si ristruttura l’azienda ed il modo di operare, è probabile che si vada verso la liquidazione. Già uno dei soci fondatori, il Comune di Roma, che forniva finanziamenti per circa 20 milioni l’anno, parla di non più di 5 milioni l’anno (a ragione e di altre priorità – mobilità, rifiuti, sociali – e della scarsa produttività del teatro) . Il MIBAC afferma di non essere in grado di aumentare il proprio apporto e la Regione parla di riduzioni del suo. Il quadro, quindi, non è incoraggiante.
Ben nove fondazioni liriche (su 13) fanno ricorso alla Legge Bray per ottenere la liquidità e gli ammortizzatori sociali necessari a riorganizzarsi. Per comprendere la situazione occorre fare un passo indietro. Nel 2008, il Governo trovò una situazione inquietante: le fondazioni avevano accumulato un debito di 300 milioni di euro (ora è quasi a 400 milioni). Con un provvedimento d’emergenza venne aumentato il contributo dello Stato e furono risanate alcune situazioni facendo ricorso anche ai fondi destinati inizialmente al Mezzogiorno. Una legge del 2010 diede una nuova cornice al comparto. Il regolamento (rimasto in bozza ancorché approvato dal Consiglio dei Ministri) rappresenta, in effetti, il primo testo unico in molti anni e avrebbe portato la legislazione italiana in linea con quella degli Stati europei. Avrebbe posto un vincolo al finanziamento dello Stato: per essere tale una Fondazione avrebbe dovuto coprire metà del proprio bilancio con entrate autonome (biglietteria, sponsorizzazioni) e contributi da Enti locali (Regioni, Province, Comuni), nonché l’apporto di soci privati. Gli Enti locali protestarono di essere già troppo oberati. Ma il punto debole era (ed è) non prevedere incentivi per la detrazioni o deduzioni dei contributi privati dall’imponibile: nel resto d’Europa le detrazioni tributarie si aggirano sul 30% dell’elargizione filantropica (ed in Francia le deduzioni arrivano al 66%) mentre in Italia si è sul 19%. Nella primavera 2013 il nuovo Governo ha dovuto seguito una strada differente, sull’onda della crisi di solvibilità soprattutto di Firenze, Genova e Cagliari, e ha approvato un sistema di prestiti a tasso agevolato per le fondazioni in difficoltà. I fondi verranno distribuiti in relazione alle attività svolte e rendicontate. Il MIBAC, però, non si è mai dato un’effettiva struttura di valutazione; quella che aveva creato in base ad una legge del 1999 valida per tutte le amministrazioni l’ha smantellata nel 2005.