Gran concertatore, gesto chiaro, eleganza: è Jiří Bělohlávek alla direzione dell’autorevole orchestra al Lingotto di Torino
di Attilio Piovano
UNA SERATA INTENSA, quella di giovedì 18 settembre, in occasione del bel concerto tenuto dalla Czech Philharmonic a Torino, al Lingotto, nell’ambito del Festival MiTo. Tutto sul versante slavo il programma che si è inaugurato con la stupefacente Sinfonietta di Janáček, capolavoro formato mignon (cinque concentrati movimenti per poco più di venti minuti di musica) che è sempre un piacere riascoltare. Sotto la direzione attenta e scrupolosa di Jiří Bělohlávek (gran concertatore, gesto chiaro e incisivo, molta cordialità comunicativa e simpatia) la Filarmonica Ceca, in stato di grazia, ha sfoderato sonorità bellissime, fin dall’esordio con la luminescente e sfolgorante fanfara di ottoni che avvia il lavoro (ottoni coreograficamente disposti nella balconata del coro e sostenuti dal pulsare ritmico del timpano, per un inizio davvero epocale). Poi i climi aciduli e le grottesche interpunzioni dell’Andante dai deliziosi passaggi cameristici, qua e là con amabili ammiccamenti all’universo della danza. Sotto la mano felice del direttore praghese tutto era chiaro e trasparente, come un delicato merletto. Un che di lievemente melanconico si sprigiona nel Moderato e sfocia poi in saettanti figure dei legni contrapposte effettisticamente al blocco degli ottoni e contempla al suo interno una più altisonante sezione (ancora una bella vetrina per l’orchestra). Davvero emozionate il colore tipicamente slavo dell’Allegretto e da ultimo il movimento finale, un Andante con moto striato di spleen, poi sempre più solare e animato, col trascinante crescendo che sbocca nella ripresa della fanfara: ed è come il culmine di una giornata vissuta en plein air, come la visione di panorami puri e luminosi, un’aprica oasi naturalistica. Taluno lamentava qualche eccesso di sonorità e certi tratti un po’ sopra le righe: a noi è piaciuta così, ci è parsa eseguita con molto garbo e gran senso del colore.
Poi la gioia schietta e genuina degli ascoltatori dinanzi alle atmosfere della celeberrima Moldava; che bei cantabili negli archi con il tema lirico, notissimo e fluente, e quanta esattezza ritmica, orchestra ammirevole (e assai ammirata) in tutte le sue ottime sezioni, un’orchestra di prima grandezza che ha poi chiuso in bellezza nel segno della inossidabile (e sempre gradita) Sinfonia ‘Dal Nuovo Mondo’ del sereno, aproblematico e naïf Dvořák. Una lettura molto convincente quella di Bělohlávek con grandi pennellate di colore ed archi sonori di ampia gittata, ma attenta altresì a mille dettagli: per dire, bene aver evitato il ritornello nell’Allegro iniziale, quanta cura nell’accarezzare il delicato, soave secondo tema, e quanta grazia nel cesellare mille particolari solo in apparenza secondari. Molto fascinosa la lettura del toccante Largo (un plauso special al corno inglese), bene lo stacco del Più mosso e irresistibile l’incandescente crescendo centrale irrorato di fremiti, prima che il corno inglese rilanci il suo melanconico tema. Nel Finale superbi, sicuri ed esatti i raccordi ritmici (in vari e delicati punti che richiedono attenzione e spesso direttori meno esperti li trascurano, col risultato di incertezze anche vistose). Tutto era fluido e perfettamente a posto. Esecuzione davvero da manuale e festa grande per l’intera compagine alla quale non si saprebbe imputare il minimo neo.
Due i graditissimi bis, rigorosamente slavi e allora: l’indiavolata, un po’ vacua e frivola, ma innegabilmente trascinante Danza dei commedianti dalla Sposa venduta ancora di Smetana, ça va sans dire e infine, per propiziare la notte, le rarefazioni venate di struggente nostalgia della manierata e pur gradevole Valse triste dello sfortunato musicista boemo Oskar Nedbal (dal balletto La fiaba di Honza del 1902).