Il nuovo lavoro del compositore israeliano utilizza idiomi sonori provenienti da varie culture, coinvolgendo anche grandi masse di interpreti non professionisti. Il risultato funziona a fasi alterne
di Cecilia Malatesta
ENTRARE E USCIRE DA REKA («sfondo» in lingua ebraica) è valicare le pareti sottili di una bolla, entrare in un organismo che nasce dal soffio e dal respiro sonoro di una folla che avvolge il pubblico sul quale si innesta fermo un canto Bön tibetano. E assistere alla sua lenta disgregazione, nello stesso modo in cui era stato plasmato. L’ultimo lavoro di “crowd music” di Yuval Avital (commissionato dal Warsaw Autumn Festival dove sarà eseguito il 24 settembre e co-prodotto dal Festival MiTo, a Milano l’altro ieri) riprende e sviluppa concetti cari alla poetica del musicista israeliano, la scrittura per grandi masse – centinaia di interpreti non professionisti chiamati a eseguire una partitura fatta di suoni e onomatopee dalla semplice emissione – e l’interazione con musicisti tradizionali con i quali si era già precedentemente confrontato in Kolot (2008) e Samaritani (2010). La folla e i percussionisti sono stati diretti da Dario Garegnani, Avital dirigeva i cantori solisti. In una dimensione archetipica e primordiale, una sorta di rito collettivo e transculturale in cui i tre strati – cantori, percussioni e folla – affiorano e affondano, Avital opera una semplificazione concettuale rispetto ai suoi ultimi lavori che facevano un importante uso di live electronics e visual art, servendosi qui solo della proiezione di alcuni tableaux tolti dalla partitura che scandiscono i nove reka in cui si articola l’opera.
Dal canto epico degli ebrei di Bukhara, alle tecniche difoniche di Tuva e Siberia, alla vocalità dei monaci tibetani, alla Sardegna del canto a tenore, alla tradizione vocale zulu, poteva essere facile cadere nella retorica di musica come fenomeno di aggregazione al di là delle differenze culturali e politiche, ma da tale lettura Reka sembra prendere le distanze – così come il duo di Avital col musicista palestinese Wisan Gibran non ha mai voluto essere un messaggio di pace politica – configurandosi piuttosto come esperienza e sonda di un mondo dalle infinite combinazioni timbriche. Reka si dilata e restringe in intensità, respira come un mantice in un dialogo che a tratti affascina (il contrappunto ritmato tra percussione e il bassu Omar Bandinu, la nenia quasi materna del duetto delle voci femminili, la nota ferma del canto tibetano cui fanno eco gli altri solisti e poi la folla), ma più spesso delude per la difficoltà di gestione delle masse sonore che sfuggono al controllo, attestandosi su dei fortissimi in cui tutto e niente emerge da Reka. E bene o male, nonostante dal penultimo quadro sia caratterizzato da una componente più dichiaratamente ritmica fino ad allora sconosciuta, il suono pur continuando a trasformarsi rimane troppo “uguale a se stesso”, lasciando il dubbio che tanta ricchezza timbrica, umana e culturale non sia stata sfruttata a pieno.