Al Teatro Filarmonico la ripresa del titolo verdiano con la storica e premiata regìa di Henning Brockhaus. I ruoli principali tutti under trenta: Francesca Dotto, Antonio Poli, Simone Piazzola
di Cesare Galla
NEI TEATRI D’OPERA LA CRISI AGUZZA L’INGEGNO, agevola le collaborazioni, rafforza il repertorio e stimola la memoria. Tutti valori che all’epoca delle vacche grasse si lasciavano in disparte. Oggi, invece, le coproduzioni sono ormai la regola – perché insieme si può risparmiare – e le regìe tendono magicamente alla semplificazione. Il repertorio – fino a non molto tempo fa guardato con sospetto – è pienamente riabilitato. E non si esita ad andare a ripescare in anni lontani spettacoli che in qualche maniera “hanno fatto la storia”, riproponendoli a nuove generazioni di spettatori.
Nel Veneto, unica regione con due Fondazioni liriche, Fenice e Arena ormai viaggiano di conserva secondo queste linee guida. E a proposito di spettacoli che vengono da lontano nel tempo: al teatro veneziano, che l’hanno scorso ha rispolverato un allestimento della mozartiana Clemenza di Tito nato nel 1982 (il meraviglioso classico firmato da Ursel e Karl-Ernst Herrmann) risponde esattamente dodici mesi dopo quello veronese, proponendo al teatro Filarmonico la storica e premiata edizione della Traviata firmata per la Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi da Henning Brockhaus, in origine con la scenografia firmata da Josef Svoboda. Correva l’anno 1992 e l’idea forza dello scenografo ceco (che nel 2000 avrebbe debuttato all’Arena con una Forza del destino di segno quasi scultoreo) si basava sul “rispecchiamento”. Com’era accaduto al debutto del capolavoro verdiano e come continua ad essere da oltre 150 anni, ogni volta la Traviata pone chi assiste di fronte a una tragedia scandalosamente a sé “contemporanea”, che lo tocca da vicino. E dunque il pubblico dev’essere “dentro” allo spettacolo, il quale a sua volta viene riflesso incessantemente in una vertiginosa e spesso spiazzante geometria delle prospettive.
Non occorre dunque alcuna attualizzazione. Non servono le provocazioni vagamente ‘pulp’ di Carsen, che tengono banco alla Fenice da quando ha riaperto dopo la ricostruzione, colonna del suo repertorio; non quelle post-moderne di Graham Vick, con la sua bambola gonfiabile gigante sullo sfondo dell’Arena e le sue allusioni alle mitologie del mondo dei vip.
È sufficiente sovrastare la scena con una grande parete a specchio inclinata, che rimanda e deforma quello che in scena accade, creando nel gioco dei tappeti dipinti che ricoprono la scena una pittorica esplosione di colori in stile vagamente “fauve”. E lasciando che il meccanismo del teatro resti scoperto, in uno straniamento che ha il benefico effetto di individuare nella drammaturgia musicale verdiana, con la sua spietata essenzialità, il punto di “messa a fuoco” dello spettacolo.
Dopo Brockhaus e Svoboda (in questa edizione i costumi sono firmati da Giancarlo Colis), di specchi in scena all’opera (sopra, sotto e di fianco) c’è stata una vera e propria alluvione. Ma l’originale, a 22 anni di distanza, conserva una sua forza nitida e concentrata che in questa edizione si vale del puntiglioso lavoro del regista sui cantanti, protagonisti e comprimari, non meno che sui figuranti. Ne esce una Traviata di precisione inesorabile: un percorso senza speranza verso la fine, durante il quale Violetta Valery e chi le sta intorno diventano vittime di un sacrificio inutile, fatuo e cruento. E quando la tragedia si compie, ecco il colpo di teatro conclusivo: la parete di specchi si raddrizza, la platea affollata e a luci ormai accese diventa elemento scenografico, il pubblico si trova sbalzato in scena. Non più spettatore più o meno disposto a commuoversi, ma in qualche modo protagonista suo malgrado di una vicenda universale.
Quando questo spettacolo vedeva la luce per la prima volta, i suoi protagonisti principali di adesso erano bambini. La compagnia di canto ascoltata al Filarmonico è infatti nei tre ruoli principali tutta under 30. Ed è un interessante ascoltare, nell’insieme, oltre che un bel vedere per la convincente prova teatrale di interpreti che nonostante la giovane età, e non senza qualche ingenuità, dimostrano di avere un’idea precisa della drammaturgìa verdiana e di avere colto il senso della regia. Francesca Dotto (26 anni) ha una voce dall’interessante color ambra, ben condotta nei centri ma non del tutto “dominata” nella zona alta della tessitura, che presenta tensioni e forzature al limite dello stimbrato. Dopo l’atto belcantistico, il primo, la sua prova si fa più convincente sia nel duetto con Germont che nel finale tragico, tutto all’insegna di una coinvolgente misura interiorizzata, significativa specialmente nello struggente “Addio, del passato bei sogni ridenti”.
Ventott’anni ha il tenore Antonio Poli, Alfredo, bel timbro chiaro condotto secondo un fraseggio meditato, mai sopra le righe, con squillo sicuro e omogeneità ben acquisita. Il trentenne baritono Simone Piazzola, beniamino del pubblico veronese in quanto “fils du pays”, sciorina il magnifico smalto della sua voce calda e comunicativa con eleganza, qualche sospetto di freddezza nel secondo atto, una sicura musicalità che potrà valersi di ulteriori positivi risultati se il fraseggio assumerà sempre il peso espressivo che a volte è intermittente.
Guidato con attenzione efficace da Marco Boemi, che dal podio disegna una Traviata senza retorica ma di pensiero, il cast è completato dalla temperamentosa Annina di Alice Marini, dal compunto dottor Grenvil di Gianluca Breda e da un manipolo di adeguati comprimari (Antonello Ceron, Nicolò Ceriani, Dario Giorgelè). Pubblico entusiasta.