Al Rossini Opera Festival una messinscena essenziale ma ineccepibile. Nel cast vocale spicca Carlo Lepore. La concertazione è di Denis Vlasenko
di Ilaria Badino foto © Rof
COME FANNO PUNTUALMENTE NOTARE I SAGGI contenuti all’interno del programma di sala di quest’ultima edizione pesarese dell’Inganno felice, v’è da rilevare una fondamentale dicotomia nella fortuna che ad esso ha arriso. Se da un lato, infatti, la farsa che ha debuttato nel veneziano Teatro San Moisè l’8 gennaio 1812 è stata senza ombra di dubbio il primo vero trionfo rossiniano, tale da aver riscosso enorme e duraturo successo ovunque nel mondo e, soprattutto, da aver lanciato il compositore nell’empireo dei Grandi, dall’altro al giorno d’oggi essa si configura come uno dei titoli meno applauditi dell’intero catalogo rossiniano. Il musicologo Emilio Sala fa ricadere la responsabilità dello scarso consenso attuale sull’appartenenza dell’Inganno felice all’alveo semiserio, cui lo spettatore moderno non sarebbe abituato, trovandolo smarrente.
Ricordiamo, infatti, che la farsa in voga nella Serenissima nel primo quindicennio del XIX secolo non va intesa come preciso sinonimo di “burla”, ma più che altro come commedia musicale di breve durata (tanto che in un’unica serata se ne rappresentavano solitamente due) e senza coro; il vocabolo viene dunque desemantizzato da una connotazione precisa di genere ed ammantato di un nuovo, più pratico significato. Quello che, a chi scrive, non risulta chiaro nel discorso di Sala sull’inattualità della declinazione semiseria dell’opera – senz’altro peculiare, è pur vero – o, meglio, il suo mediocre riscontro presso il pubblico odierno nasce dal fatto che, proprio in quel del Rossini Opera Festival, s’è avverato un potentissimo fenomeno contrario rispetto a queste dichiarazioni: l’affermazione crescente di edizione in edizione, fino a raggiungere livelli di apoteosi, della Matilde di Shabran, qui presentata per la prima volta nel 1996 con, tra gli altri, un Juan Diego Flórez che ne entrò debuttante e ne uscì prodigio già completamente consacrato. Forse che, invece, sia stata la qualità musicale della farsa in questione a farcela percepire come assai gradevole, rientrante appieno in quel solco di naïveté da Rossini del 1815 – amante del quale Stendhal soleva definirsi –, ma in realtà non irresistibile? Ai posteri, quando il processo nato con la Renaissance arriverà ad una compiuta assimilazione di tutti i titoli del catalogo del Cigno di Pesaro da parte dei suoi fruitori, l’ardua sentenza.
La regìa proposta in questa XXXVI edizione del ROF è una ripresa dello spettacolo approntato da Graham Vick nel 1994 e la sua semplicità disarmante è proprio quello che ci vuole per fare da perfetto supporto visivo a quella che poche righe sopra dicevamo essere un’operina fresca, graziosa, un pizzico ingenua. Sipario color avorio strappato nell’estremità inferiore a rendere l’idea della miserevole condizione materiale in cui versano i minatori della cava in cui si svolge l’intera azione; a destra, una panca che funge via via da luogo in cui si svelano segreti, si tessono trame, si cercano di estorcere confessioni, ci si nasconde agli occhi del nemico e, verso le quinte, l’ingresso della casa in cui Tarabotto e la sua falsa nipote Nisa, in verità l’ingiustamente ripudiata Duchessa Isabella, vivono da ormai dieci anni; nel mezzo le cave e, in lontananza, una nave a ricordare il tremendo destino dell’integerrima nobildonna, abbandonata in mare per colpa dell’infido consigliere Ormondo. Luci sapientemente dosate et voilà: una messinscena essenziale ma ineccepibile.
Per quanto riguarda il versante squisitamente vocale, vero mattatore della serata è il basso napoletano Carlo Lepore: il suo inconfondibile timbro ricco e denso, unito all’innata verve scenica, meravigliosamente s’attagliano alla parte – per ampi sprazzi dialogica, e quindi richiedente un attore provetto – di Tarabotto. Segue a ruota il sorprendente Batone del giovane Davide Luciano, dotato di materiale considerevole, precipuamente per succosità timbrica e per l’abilità nello snocciolare le colorature previste dal primo ruolo scritto da Rossini per il leggendario Filippo Galli. È quindi ovvio che il duetto Tarabotto-Batone «Va taluno mormorando», brano imprescindibile nei recital per due buffi spesso in programma a Pesaro, diviene il momento più alto della serata sia per mero valore canoro che per trascinante esuberanza interpretativa. Per contro, deludenti le prestazioni degli altri protagonisti: Mariangela Sicilia è un’Isabella fin troppo fragile e dall’emissione poco salda; Giulio Mastrototaro, spesso ospite del Festival rossiniano di Bad Wildbad, risolve con difficoltà la pur tutt’altro che complessa aria d’Ormondo «Tu mi conosci, e sai» e non si prodiga certo in una memorabile prova attoriale; ma è Vassilis Kavayas l’anello più debole della catena, in quanto nella parte piuttosto piana del Duca Bertrando sfoggia una vocalità di grazia inammissibile nel post-Renaissance la quale, tuttavia, avrebbe potuto arrecare danni limitati in una parte né molto estesa né particolarmente irta di virtuosismi non fosse che il tenore ateniese s’impicca comunque ogni qual volta tenti di ascendere al benché minimo acuto. Piuttosto monocorde la concertazione di Denis Vlasenko a capo dell’Orchestra Sinfonica G. Rossini, cui va riconosciuta una correttezza di fondo senza però bagliori o guizzi alcuni.