A Verona la Prima sinfonia di Mahler e il Terzo concerto per pianoforte di Beethoven, solista Lise de la Salle con l’orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
di Cesare Galla foto © Studio Brenzoni
MAHLER NON AVEVA UNA GRANDE CONSIDERAZIONE DI PUCCINI, che posponeva a Mascagni e perfino a Leoncavallo. A parte l’ironica e urticante descrizione di Tosca in una celebre lettera alla moglie («al giorno d’oggi, qualsiasi dilettante sa orchestrare alla perfezione»), neanche La Bohème gli piaceva granché e come direttore dell’Opera di Vienna fu piuttosto “avaro” di spazio per l’operista italiano, del quale aveva peraltro diretto la prima tedesca delle Villi. Era accaduto ad Amburgo, dove in seguito aveva avuto occasione di concertare anche Manon Lescaut. Al contrario, Puccini nutriva notevole stima per Mahler, se non altro come direttore d’orchestra. E dunque, ascoltare come bis l’Intermezzo di Manon, dopo che la serata si è conclusa con la Prima Sinfonia di Mahler è a tutti gli effetti un confronto sapido e per certi aspetti illuminante.
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La singolare successione è stata proposta da Juraj Valčuha al teatro Filarmonico di Verona, dove ha diretto l’orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia in un applauditissimo concerto al Settembre dell’Accademia. Ed è servita per cogliere – oltre le idiosincrasie di gusto e gli abbagli culturali (tale non si può non considerare l’ostracismo anti-Puccini di Mahler) – quanto in realtà nell’arte di questi due autori circoli una sensibilità che ha molti punti in comune anche se stili espressivi spesso assai lontani, non fosse che per questioni formali e di genere. Nella lettura di Valčuha, l’Intermezzo appare per certi aspetti “vicino” alla Sinfonia Titano, che ha orizzonti ben diversi. Perché la grande tensione della scrittura per gli archi, con l’attacco affidato a violoncello e quindi viola (eccellenti le prime parti ceciliane) e il progressivo crescere dinamico con le successive entrate delle altre sezioni è sembrato un rispecchiamento “italiano” (per colore e incisività) perlomeno di un passaggio cruciale del Finale della Sinfonia, laddove agli archi è affidato quel tema secondario ma cruciale nel quale l’esteriore retorica trionfale ammutolisce quasi di colpo e sembra che il Titano si guardi dentro scoprendo paesaggi psicologici ed emotivi tutt’altro che eroici. Quelli che del resto poi Mahler esplorerà con sempre maggiore tormento fra l’Adagietto della Quinta Sinfonia e l’Adagio di lancinante profondità che conclude la Nona.
Lise de la Salle ad onta dei suoi ventisette anni si esprime con maturità pensosa, senza cercare l’originalità fine a se stessa, ma restando anzi dentro l’alveo di una tradizione rassicurante
Clou del concerto veronese, la Prima Sinfonia mahleriana ha visto affermarsi una sintonia di rara efficacia fra il gesto netto ed evidente di Valčuha e l’eccellente qualità strumentale dell’orchestra di Santa Cecilia, che si è espressa con un’eloquenza di suono di rara duttilità e immediatezza, con una sorta di “agilità” sorprendente e affascinante, sempre esattamente dentro all’intenzione interpretativa del direttore. Lo si è notato fin dall’attacco del primo movimento, rarefatto e di tagliente precisione, e quindi in tutto il vasto affresco naturalistico di questa parte, che ha esaltato l’agguerritissima sezione dei legni. E la sensazione di pienezza nella sfumature è proseguita nella ruvida “volgarità” dello Scherzo, con gli archi bassi sugli scudi, così come nella trasognata e angosciante sospensione di tempo e spazio che la celebre deformazione della canzoncina di Fra’ Martino assicura al movimento lento, dipinto con una cupezza timbrica insieme grottesca e dolorosa. Nel giovane Mahler, secondo Valčuha già si muovono umori e dolori che saranno fondamentali nella sua arte così tipicamente capace di annunciare la crisi di senso dell’estetica romantica. E lo fa ascoltare con disarmante evidenza, senza concessioni di maniera, trasformando questa Sinfonia in un preannuncio di nuovi orizzonti piuttosto che in un estremo omaggio alla retorica ottocentesca. Senza peraltro che nulla si perda della sua ricchezza di colori e d’invenzione melodica e in generale del multiforme rigoglio della scrittura orchestrale.
La prima parte della serata era invece dedicata al momento in cui Beethoven finalmente supera l’ombra dell’eredità mozartiana, accettando di confrontarsi con essa nel campo del concerto per pianoforte e trovando la strada nuova di un diverso rapporto fra strumento solista e orchestra. Si parla del Terzo Concerto, evidentemente (nella stessa tonalità di Do minore del grande capolavoro di Mozart, K 491). Si è fatta carico di chiarire in che consista questo epocale passaggio di testimone una giovane pianista francese, Lise de la Salle, che ad onta dei suoi ventisette anni si esprime con maturità pensosa, senza cercare l’originalità fine a se stessa, ma restando anzi dentro l’alveo di una tradizione rassicurante e consolidata almeno per quanto riguarda il suono. Eppure, all’interno di coordinate familiari, quel che non balza in evidenza sul piano dei contrasti abbaglianti, della ruvida forza espressiva, viene compensato da un fraseggio molto pensato e molto sorvegliato specie sul versante delle sfumature dinamiche e dei tempi. E così emerge la carica innovativa di Beethoven dentro al Classicismo viennese, anche perché il dialogo con l’orchestra viene mantenuto da Valčuha in efficace equilibrio, tale da rendere l’afflato sinfonico dell’idea beethoveniana in tutte le sue sfumature timbriche, senza però prevaricare il ruolo solistico e anzi “isolandone” il ruolo antagonistico allo scopo di evidenziarlo.
Molti consensi ha colto anche la giovane interprete di Cherbourg, che ha suggellato la sua prova con un bis nel nome di Debussy, Preludio numero 4 dal primo Libro, Les sons et les parfums tournent dans l’air du soir.
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