[purchase_link id=”33840″ text=”Acquista e scarica in Pdf la singola recensione completa” style=”button” color=”blue”]
Rara esecuzione del capolavoro napoletano in un teatro d’opera periferico. All’assenza di divi del belcanto corrispondono qualche inadeguatezza e meriti individuali
di Francesco Lora
SENZA CHE I TEATRI DEL MONDO afferrino la palla al balzo per festeggiare, le opere di Gioachino Rossini stanno compiendo proprio in questo periodo, una dietro l’altra, i loro primi duecento anni. Un’eccezione si è avuta non dai teatri che tennero battesimo i capolavori (Venezia, Milano e Napoli in primis), né dai festival di Pesaro o di Bad Wildbad, rossiniani nella sostanza ma poco interessati alle cifre tonde. Al contrario, essa è venuta da un’istituzione di produzione operistica tra le più periferiche d’Italia, l’Ente Concerti “Marialisa de Carolis” di Sassari, con dosi miste di intraprendenza, sperimentazione, buona sorte e avventatezza.
Nessun teatro al mondo vantava, nel primo Ottocento, la compagnia di canto del San Carlo; e per nessun’altra compagnia Rossini ideò una scrittura vocale altrettanto impervia e selettiva
Il sipario si è aperto, per due sole recite (9 e 11 ottobre), sull’Elisabetta regina d’Inghilterra, esordio di Rossini al Teatro di San Carlo di Napoli e titolo oggi più citato in musicologia che restituito all’ascolto del pubblico. Ma per la storia dell’opera, Sassari non è Napoli, né il sancta sanctorum del San Carlo ha molto da spartire con l’irrazionale Teatro Comunale, recente costruzione che soffoca l’orchestra in una profonda cisterna semicoperta dal palcoscenico, e che assorda il canto tra platea e gallerie dall’acustica disarmante.
[restrict paid=true]
L’esegesi drammaturgica dell’opera è firmata da Marco Spada, il direttore artistico che, fuori da ogni conflitto d’interessi, scrittura sé stesso come regista e si pone al fianco Mauro Tinti come scenografo e Maria Filippi come costumista. Trasposta l’azione agli scorsi anni Settanta, l’espediente di partenza è parimenti scontato: Elisabetta I Tudor va a sovrapporsi, in tutto ciò che si vede, all’omonima Elisabetta II Windsor, dall’abbigliamento all’effigie nelle affrancature. Ma è puro pretesto: manca la coincidenza, constatata o indotta, nei profili psicologici e nelle situazioni teatrali. Così, quando nel rondò finale l’Elisabetta oggi regnante si vede calare addosso i panni rinascimentali della figlia di Enrico VIII, si coglie l’esteriorità del coup de théâtre ma non l’idea forte che vi sovrintende. Né mancano le disattenzioni che distinguono il dilettante dal vero maestro della scena; un esempio tra molti: quando, all’inizio dell’atto II, Elisabetta convoca a colloquio la rivale Matilde, ella figura per la prima volta con fascia da capo di stato, in contrasto con la dimensione privata, e lascia che le guardie di Buckingham Palace, in giacca rossa e cappello d’orso, rimangano ferme ad assistere all’incontro segreto e meschino. Paradossi invalidanti.
Nessun teatro al mondo vantava, nel primo Ottocento, la compagnia di canto del San Carlo; e per nessun’altra compagnia Rossini ideò una scrittura vocale altrettanto impervia e selettiva. Esaurita la prima generazione della renaissance (quella di Anderson, Horne, Blake, Merritt, Ramey) e oberata la seconda (quella di Bartoli, Barcellona, Ganassi, Flórez, Pertusi), nulla è stato fatto perché se ne conformasse una terza di autentici specialisti. In tal modo, la costituzione di una degna compagnia dipende oggi dalla contesa di pochi nomi con cachet stellare e agenda colma, o da un inaudito fiuto vociologico in grado di scovare in nuovi talenti i divi del belcanto di domani. A Sassari si è forse fantasticato di ricadere in questo secondo caso, radunando invece una rosa di onesti professionisti, dove certuno sorprende e sbarazza pregiudizi, altri paga il fio d’aver ambìto alla corona dei cantanti borbonici. Si applaude ad Alessandro Liberatore, tenore del repertorio di tradizione, forte di timbro solare e schietto porgere all’italiana, pregi preclusi agli statunitensi di prima generazione; la parte di Leicester lo esenta dal cimento in zona sopracuta e da agilità complesse, e trova anzi in lui una risorsa da tenere d’occhio per prossime occasioni.
Il più ferrato in Rossini sarebbe David Alegret, posto tuttavia alle strette da due circostanze: la prima è lo stato d’indisposizione, non annunciato ma evidente, che gli erode nerbo, smalto e proiezione; la seconda è l’errore di assegnare a lui, tenore contraltino, una parte composta non per l’etereo Giovanni David, destinatario di successive opere rossiniane per Napoli, bensì per il baritonaleggiante Manuel García, che al personaggio di Norfolc poteva dare altra polpa di registro centrale e grave. Elisabetta è altresì l’unica opera napoletana di Rossini a prevedere, in Matilde, un’impegnativa parte sopranile di seconda donna: Sandra Pastrana la affronta con qualche asprezza estensiva, ma anche con lettura musicale di ineccepibile acume, nonché con una sollecitudine attoriale e un’avvenenza fisica non comuni. Nel comprimariato, il volonteroso mezzosoprano russo Olesya Berman Chuprinova, come Enrico, ricorda come una voce italiana possa lasciare miglior segno in questo repertorio; ma il prestante tenore spagnolo Néstor Losán, come Guglielmo, costringe subito a una visione meno restrittiva: di rado si sono ascoltati, in parti di fianco, emissione più solida e recitativi più accurati.
D’altra parte, spagnola era Isabella Colbrán, creatrice della parte protagonistica di Elisabetta, mentre a Sassari è un’italiana a stabilire il punto più interlocutorio dello spettacolo. Ciò che caratterizzava l’impero canoro e retorico di una tra le massime muse ottocentesche rivela nella protagonista Silvia Dalla Benetta una serie d’inadeguatezze. Il timbro è comune, e in modo comune tende alla vetrosità nel registro acuto, all’inconsistenza in quello medio e alla forzatura in quello grave. La vocalizzazione, tutt’altro che pulita e fluida sia per consapevolezza testuale sia per limite naturale e tecnico, violenta in itinere i ragionevolissimi tempi staccati dal direttore e vistosamente impone loro smisurati rallentamenti. L’intonazione stessa – quando non messa a repentaglio dal canto di sbalzo, dove il soprano si concede sconti elevando d’ottava – lascia a desiderare fino a un imbarazzante cantabile a terze e seste parallele nel duetto con la brava Matilde. Funzionale la recitazione, a dispetto dell’enfasi dei panni regi e di una parte che andrebbe assegnata non come tentativo, ma come premio di una carriera; né basta la benevolenza degli amici a sancire una statura da primadonna qui necessaria al più alto grado.
Concertazione e direzione spettano a Federico Ferri, musicista di solida esperienza nel repertorio barocco e contemporaneo, qui affacciatosi al teatro d’opera romantico dopo già valide prove nel sinfonismo ottocentesco. Si ammirano la sua dedizione e il suo scrupolo: non deve essere un caso che nessun taglio sia inflitto ai numeri musicali, che i cantanti si presentino muniti e ben coordinati in variazioni e cadenze, che il respiro dei medesimi poggi sempre con naturalezza sui tempi scelti (dell’unica fastidiosa eccezione s’è detto). Orchestra e Coro dell’Ente Concerti non sono stabili nei loro organici, ma formati ex novo di stagione in stagione: soprattutto in questo spettacolo inaugurale si coglie dunque il loro intrinseco livello semiprofessionale – dove l’inesperienza genera disattenzioni e dove la garanzia tecnica non è di casa – applicato a una partitura per contro esigente e impetuosa. Con maestranze che non potrebbero essere riassestate in pochi giorni né tantomeno essere slanciate al virtuosismo ritmico e al fraseggio smaliziato, Ferri lavora tuttavia di colori e sfumature, dotando l’insieme di una vivace ma pacata maestosità stile impero oggi dimenticata da molti lettori del Rossini serio.
[/restrict]
[purchase_link id=”33840″ style=”button” color=”blue” text=”Acquista e scarica in pdf la singola recensione completa “]