LA MOSTRA
Moïse – Figures d’un prophète
Non manca ovviamente il Moses und Aron di Schönberg (qui nella produzione della Ruhrtriennale del 2009 a Bochum) nell’interessante mostra monografica intitolata Moïse – Figures d’un prophète al Musée d’art e d’histoire du Judaisme di Parigi. Attraverso 150 oggetti espositivi – quadri, schizzi, manoscritti antichi, arazzi, sculture, libri, video – la mostra curata da Anne Hélène Hoog, Matthieu Somon, Matthieu Léglise e Sonia Fellous propone un avvicente percorso nei diversi modi in cui il personaggio biblico è stato rappresentato dall’antichità ad oggi. Come prefigurazione di Cristo, come sommo legislatore, come profeta liberatore, come metafora del potere o come incarnazione dei desideri d’emancipazione del popolo ebraico, Mosè è uscito spesso dall’ambito strettamente teologico, divenendo ora motivo d’ispirazione per le arti figurative e performative, ora motivo di riflessione per la filosofia, le religioni e la politica. Si inizia con due splendidi quadri di Nicolas Poussin (1650 circa) e si termina con Lo sguardo di Michelangelo di Antonioni (2004), passando per i vari Mosè di Chagall e Oppenheim e un toccante estratto dell’ultimo discorso di Martin Luther King interamente ispirato alla figura del profeta. Qualche interessante suggestione musicale di tanto in tanto con l’opera schönberghiana di cui sopra e alcune tracce musicali da ascoltare in cuffia nell’ultima sala, tra cui la celebre Go down Moses interpretata da Louis Armstrong. Un percorso completo e ben strutturato, ricco di spunti di riflessione e perle artistiche rare, che si può apprezzare fino al 21 febbraio 2016. Barbara Babic
Il titolo di Schönberg all’Opéra de Paris, coproduzione con Teatro Real de Madrid. La direzione musicale è di Philippe Jordan. Romeo Castellucci designato a sostituire Patrice Chéreau, al quale venne affidata inizialmente la regìa
di Barbara Babic foto © Bernd Uhlig
«O Wort, du Wort, das mir fehlt!», O parola, parola che mi manca invoca disperatamente Moses al termine dell’opera e si potrebbe dire che allo stesso modo rimangono senza parole anche pubblico e critica internazionale davanti a questa splendida produzione della stagione dell’Opéra parigina sotto la guida di Stéphane Lissner. Che ha osato, scegliendo questo titolo di certo non popolarissimo alla luce «dell’attacco a Cherlie Hebdo, che ha sollevato la questione della rappresentazione di Dio, del comunicare e trasmettere le idee. E in un momento in cui ci sono molti rifugiati». Lo è stato anche Schönberg durante gli anni dell’esilio in Francia e in seguito negli Stati Uniti, periodo in cui cercherá – senza successo – di trovare un finale per l’opera i cui primi due atti furono composti giá tra il 1930 e il 1932, mentre del terzo rimarrà solo il testo della prima scena.
Il finale del Primo atto è un tableau vivant di grandissimo effetto, con i corpi nudi ammassati in una nicchia che fa cornice allo spazio scenico
La regìa di questa produzione, inizialmente affidata a Patrice Chéreau (scomparso nel 2013), è nelle mani di Romeo Castellucci che si trova davanti a una pagina di certo non facile: la sua forma ibrida tesa tra opera e oratorio, il suo finale aperto, le sue profonde questioni filosofiche, storiche e teologiche e non da ultimo l’arduo compito di dare forma e immagine ad un’opera che proprio questo condanna. Il roveto ardente si trasforma in un vecchio registratore il cui lungo nastro è consegnato nelle mani di Moses che è stato scelto per ‘sbobinarne’ il contenuto e comunicarlo assieme al fratello Aron al popolo d’Israele.
https://www.youtube.com/watch?v=F1TP-2yDYp4
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Il Primo atto è pervaso da un’atmosfera dalle tinte chiare ma allo stesso tempo nebulosa, poco nitida a causa del grande schermo posto davanti alla scena: come il popolo, anche il pubblico è qui costretto a fare uno sforzo per vedere oltre, per mettere a fuoco l’immagine e quell’inafferrabile concetto del divino. Il senso lo si cerca nelle parole proiettate al centro dello schermo, prima di pari passo con il testo poi in un vorticoso delirio babelico. E se Moses non può trovare le parole per questo “unico, eterno, onnipresente, invisibile e irrafigurabile Dio”, Aron ne ha fin troppe nel momento dei miracoli, in cui il bastone si trasforma in un serpente cibernetico e l’acqua del Nilo diventa sangue in un’asettica situazione da laboratorio.
Il finale del Primo atto è un tableau vivant di grandissimo effetto, con i corpi nudi ammassati in una nicchia che fa cornice allo spazio scenico: la donna che cade rovinosamente sulla scena è presagio di quel sacrificio che si vedrà di lì a poco mentre il vitello d’oro della vicenda biblica è un toro in carne ed ossa sul palco. Un bœuf charolais per la precisione, recentemente al centro di diverse polemiche sollevate ora dalla causa animalista ora dagli economisti dell’ultima ora che hanno condannato gli sprechi del teatro (la sua presenza pare costi 5000€ a serata alle casse dell’Opéra). L’animale viene ricoperto in parte di oro nero, inchiostro nerissimo di cui si tinge in abbondanza anche il coro-gregge vestito di bianco, ora in un delirio orgiastico e sacrificale (la bella coreografia è di Cindy Van Acker) ora in un battesimo nel fiume dall’aqua torbida. Aron appare in scena come un Krampus, con una scura maschera sul volto e un’ingombrante pelliccia fatta del nastro magnetico del messaggio divino. Quando Moses scende da un innevato Monte Sinai e condanna il comportamento del fratello, il pubblico per la prima volta si libera in una breve e tesa risata, riconoscendo in Aron l’ingenuità e la debolezza dell’umano. Il finale è di grande suggestione: si fa notte d’improvviso e sulla scena cala un velo, questa volta nero e apparentemente leggero, ma che per Mosè è pesantissimo: è un uomo schiacciato dal peso della responsabilità di essere una guida che non riesce a trovare le parole, nella tragedia dell’insufficienza nascosta sotto la maschera di un leader suo malgrado. È un momento di dramma assoluto, intenso e potentissimo, che fa presto dimenticare una certa lentezza drammaturgica del secondo atto, lasciando il pubblico in apnea fino alla caduta del sipario, ennesimo velo a separare ora il dramma dalla realtà.
Lunghi applausi e ovazioni coronano una serata riuscitissima. Il Moses di Thomas Johannes Mayer é impeccabile, si muove con sicurezza nella sua parte caratterizzata dalla Sprechstimme che il compositore gli ha affidato in contrasto al suo Doppelgänger John Graham-Hall, che ha una parte tenorile ben più ostica: la sua vocalità è in certi momenti fin troppo cauta ma ricchissima di sfumature, supportata da notevoli doti attoriali che rendono Aron un personaggio assai camaleontico. Il terzo protagonista dell’opera è il coro di più di cento persone tra voci e mimi ed è a lui che va il maggiore plauso del pubblico (assieme ai due direttori del coro José Luis Basso e Alessandro Di Stefano) come del resto, non da ultimo, all’eccellente prestazione di Philipp Jordan e dell’orchestra dell’Opéra sulla complessa partitura schönberghiana, costata un anno di lavoro. La regia lascia senza dubbio il segno: come Aron, Castellucci seduce con immagini fortissime, in un ottimo equilibrio tra tableau e azione, riuscendo a muoversi su un piano celebrale e simbolico grazie alla sapiente scelta lasciare vaga l’ambientazione. E alla fine ci lascia cosí, fluttuanti in una dimensione senza spazio e senza tempo in cui la terra promessa non è neanche un miraggio, per un’intensa riflessione sulla fragilità umana nascosta dietro all’urgenza delle icone e sull’inadeguatezza di chi si dice o si presume essere profeta.
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