L’opera barocca lascia molto spazio alla regìa, alle scene e ai costumi. L’idea principale di Jurgen Flimm è quella di dimostrare come il tema della discussione tra i quattro protagonisti oltrepassi i confini di un classicismo di maniera e possa essere riproposto anche ai nostri giorni, o almeno alla fine degli anni ’40, all’interno di un ambiente conviviale come quello di un grande e famoso ristorante francese
di Luca Chierici foto © Brescia & Amisano
La presenza di un’opera di Händel (o di un Oratorio o di un ibrido come Il trionfo del tempo e del disinganno) alla Scala è evento così raro da non poter passare sotto silenzio, e pur lamentandoci con insistenza per la scarsa presenza di questo tipo di repertorio nei teatri italiani, non si può che commentare favorevolmente lo spettacolo che è andato in scena l’altra sera, parzialmente recuperato da una produzione di Zurigo e di Berlino. Il protagonista assoluto di questo evento è risultato essere sicuramente il giovane Autore, che appena ventenne seppe creare un capolavoro di tale raffinatezza e conoscenza del milieu musicale italiano da contendere al Mozart post-adolescenziale le prerogative del genio. Non dimentichiamo che Händel scrive il Trionfo nel 1707, dimostrando una enorme capacità di assimilazione di un gusto e di una tradizione che a quel tempo non erano così sviluppate come lo saranno negli anni ’70 del secolo nel momento in cui il salisburghese dimostrerà analoghe attitudini nei confronti dell’opera italiana. Ma non si tratta qui solamente di rielaborazione del contesto: Händel integra la composizione dell’orchestra barocca italiana arricchendo lo strumentale, apre le combinazioni vocali a forme del tutto innovative come quella del quartetto.
[restrict paid=true]
Questo lavoro del “leggiadro giovinetto” (finalmente il saggio di Lorenzo Mattei pubblicato nel programma di sala affronta anche il delicato argomento dell’omosessualità neppure tanto latente negli ambienti aristocratici e culturali italiani dell’epoca) è di corrente esecuzione in tutta Europa, così come lo sono le grandi opere haendeliane, e in Italia va dato atto ad Alberto Zedda il fatto di averne curato una pionieristica produzione con la “Scarlatti” di Napoli nel lontano 1992. Dal canto loro tutti i bravissimi artisti che hanno portato al successo la serata scaligera, dal direttore Diego Fasolis alla compagnia di canto formata da Martina Jankova, Sara Mingardo, Lucia Cirillo e Leonardo Cortellazzi erano in possesso – chi più chi meno – di una esperienza conquistata attraverso anni di frequentazione del repertorio barocco e di quello haendeliano in particolare.
L’approccio moderno e “scientifico” a una partitura risalente agli albori del secolo diciottesimo era garantito persino da una formazione appositamente selezionata da Fasolis nell’ambito degli strumentisti dell’orchestra della Scala, esempio di versatilità di quelle che crediamo siano le componenti più giovani dell’orchestra e quindi con maggiore dimestichezza verso le problematiche esecutive di queste musiche. Scelta che non risolve però il problema della scarsa risonanza di un tale ensemble all’interno di un teatro immenso come è quello scaligero che, non dimentichiamolo, era stato concepito settant’anni dopo l’epoca di composizione del Trionfo. Il tipo di emissione propria del canto barocco è poi tale per cui non appena i cantanti si allontanano dal proscenio l’intensità di suono va a diminuire, manca del tutto la cosiddetta “proiezione” della voce, rendendo difficile la percezione dell’insieme. A quanto pare non è oggi possibile risolvere questo dilemma: non è possibile ritornare ai tempi in cui – alla fine degli anni ’50 – alla Scala si dava l’Ercole seguendo esattamente gli stessi canoni dell’opera romantica, ma nemmeno alle orchestre fastose che fecero risuonare l’Ariodante nella scomparsa Piccola Scala. L’uso di microfoni che amplificano il suono non è auspicabile e il Teatro come luogo naturale di espressione di questa musica sembrerebbe essere dunque soppiantato dal molto più prosaico schermo del televisore di casa collegato a una potente coppia di altoparlanti ?
Tutti i cantanti sono stati l’altra sera premiati dal pubblico con applausi a scena aperta. Così la Jankova e la Cirillo a partire dal duetto “Il voler nel fior degl’anni”, la voce calda e vibrante di Cortellazzi nel “Vo per mari” e soprattutto la Mingardo, esemplare come sempre per naturalezza di emissione ed espressività lungo tutto il corso della serata. Fasolis è uno di quei direttori che accompagnano amorevolmente e con gesto affettuoso (eppure severo nella sua precisione) cantanti e strumentisti dalla prima all’ultima nota, con una partecipazione che nulla concede al lato spettacolare della sua carica. Il clima della serata era piacevolissimo, senza che si avesse l’impressione di un rito officiato solamente per i pochi e irriducibili eletti appassionati di “musica antica”.
L’opera barocca lascia molto spazio alla regia, alle scene e ai costumi. L’idea principale di Jurgen Flimm è quella di dimostrare come il tema della discussione tra i quattro protagonisti oltrepassi i confini di un classicismo di maniera e possa essere riproposto anche ai nostri giorni, o almeno alla fine degli anni ’40, all’interno di un ambiente conviviale come quello di un grande e famoso ristorante francese. Discussioni oziose, probabilmente, come molte di quelle che si intavolano a fine serata, eppure momento di socializzazione in cui il rapporto tra gli avventori, le dinamiche psicologiche, contano assai più del tema stesso che ha aperto il dibattito. Idea interessante, supportata dalla preziosa scena di Erich Wonder che ha il solo limite di proporsi senza cambiamento alcuno nelle due parti del lavoro.
Händel era, tra le altre cose, un grande organista. E al suo talento il librettista rivolse un omaggio inserendo lo spazio per una Sonata strumentale in cui lo stesso compositore prestò la sua presenza di fronte a un pubblico sempre più ammirato. Gianluca Capuano, maestro al cembalo e all’organo ha officiato in tal senso in questa bella produzione scaligera.
[/restrict]