Inaugurazione della rassegna con la Sinfonia n. 3: fraseggi profondi e aspri da Iván Fischer e dalla Budapest Festival Orchestra, cui si aggiungono il rotondo canto di Gerhild Romberger e la compagine corale felsinea e ceciliana
di Francesco Lora foto © Marco Borggreve
NON È FACILE, e meno che mai in Italia, ascoltare dal vivo la Sinfonia n. 3 in Re minore di Mahler: impegno notevole, durata colossale, organico importante, forze insomma fuori dell’usato, tra l’attenzione richiesta all’uditorio e lo schieramento di mezzosoprano solo, voci bianche e coro femminile. Nel segno di questa partitura da gesto forte, Bologna Festival ha inaugurato con orgoglio la trentacinquesima edizione e ha ribadito la linea programmatica: porta d’ingresso in città dei grandi interpreti internazionali, dei nuovi talenti da conoscere nonché di risorse locali misconosciute, e luogo d’intercettazione di musicisti in libera tournée ma con l’auctoritas di farsi da loro ricucire su misura la scaletta musicale.
Il Mahler eseguito il 15 marzo nel Teatro Manzoni ha incoccato innanzitutto all’arco la freccia dell’informazione sul mondo mitteleuropeo orientale, ossia su una cultura e un mercato tanto giganteschi quanto poco noti all’occidente d’Europa e in particolare a quello latino. Non molti, infatti, hanno contezza della Budapest Festival Orchestra come invece l’hanno dei Berliner, dei Münchner e dei Wiener Philharmoniker, laddove in particolare questi ultimi risiedono a non molta distanza. E non molti hanno contezza del direttore Iván Fischer come invece l’hanno di Claudio Abbado, Zubin Mehta e Giuseppe Sinopoli, benché questi abbiano studiato alla sua stessa scuola viennese.
Com’è dunque questo Mahler che viene dall’Ungheria, pezzo dell’antico impero tanto quanto Vienna, e garantito da una bacchetta specialista dell’autore? Non è un giardino di vetri colorati e lamine d’oro, che rispecchi le suggestioni della Secessione, di Klimt, dell’Austria conservatrice eppure esoticheggiante prima della finis. È invece un mondo dove la componente grottesca si emancipa sopra le altre e sparge su tutto fraseggi profondi e aspri, timbri acidi, velluti mutati in schegge. Da un’orchestra traboccante di suono e tecnica, con archi d’acciaio e fiati da assalto, senza la priorità della calligrafia, Fischer pesca discorsi dai toni imprevedibili, fa cantare ai limiti del rispetto dei ritmi, si preoccupa non del meccanico e perfetto procedere a tempo, bensì di sfumare, alonare, indurre attacchi con quell’impercettibile sfasamento che vivifica, che scherza, che obietta l’indefinito del tragico contemporaneo. A tempo debito, si ammira la matura rotondità contraltile di Gerhild Romberger, voce solista senza ombra di sofisticazione e invece diretta, semplice, materna. E poco dopo si arciammirano il Coro femminile dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e il Coro di voci bianche del Teatro Comunale di Bologna: quando si parla di canto, non v’è sala da concerto a Vienna o Parigi, a Londra o Berlino dove si possano ascoltare più sontuoso rigoglio naturale, più degna coscienza tecnica, più raggiante bouquet timbrico.