Appuntamento ricchissimo di ascolti e variegate voci contemporanee. Il festival tedesco ha proposto, tra tante, anche le opere di Sergej Newski, Dietrich Eichmann, Anna Korsun, Benjamin Scheuer, Boris Filanovsky, Ansgar Beste, Eivind Buene, Lars Petter Hagen, Rebecca Saunders
di Gianluigi Mattietti foto © Martin Sigmund
C’era molta attesa al festival Eclat di Stoccarda per due nuovi lavori di teatro musicale di Manos Tsangaris e François Sarhan, data anche la vocazione della rassegna tedesca per le nuove forme di multimedialità, di interazione del suono con lo spazio della performance, con il testo, con le videoproiezioni. In EILAND, Tsangaris (che è stato allievo di Kagel) cercava appunto di cambiare la tradizionale idea di spazio scenico, creando uno spettacolo “multi-station”, presentato per la prima volta nella sua versione integrale. I Neue Vocalsolisten e cinque clarinetti contrabbasso (Theo Nabicht, Ernesto Molinari, Armand Angster, Olivier Vivares, Hans Koch) erano raggruppati in diverse formazioni, come isole dotate di dispositivi luminosi, nelle quali gli interpreti compivano diverse azioni, ciclicamente, e tra le quali gli spettatori si muovevano, come in un Wandelkonzerte dai percorsi personalizzati. Da prospettive diverse si poteva assistere anche a Une philosophie dans le boudoir di Sarhan, che si basava su tre testi distinti, ottenuti con tecniche di puro collage – il finale dell’omonimo libro di De Sade (quello dove la madre di Eugénie cerca di salvare la figlia dai mostri che la hanno corrotta, ma viene frustata e violentata da un uomo malato di sifilide); delle interviste di lavoro di una grande azienda; le Lettere di Ulrike Meinhof.
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Questi tre libretti venivano proiettati simultaneamente, su tre diversi lati di una grande scultura di carta sospesa su un tavolo al centro della sala: e questo era il fulcro di un’azione scenico-musicale astratta, senza alcuna relazione diretta con i testi. Ancora i Neue Vocalsolisten, seduti intorno a questo tavolo, partivano da una situazione molto formale (una cena, una riunione in ufficio, in un club) con pochi gesti quotidiani e sincronizzati (bere in un bicchiere, rivolgersi a qualcuno, voltare la testa a sinistra o a destra, sollevare un foglio). Questi gesti si sviluppavano secondo una logica musicale, punteggiati da interventi madrigalistici (con armonie statiche e pochi arabeschi), ma poi creavano un processo di dissociazione grottesco, e i personaggi passavano dalle carezze ai ceffoni, scoppiavano in fragorose risate, si esaminavano con lo stetoscopio, si prendevano a bicchierate d’acqua in faccia, si trascinavano sul tavolo, in un crescendo di violenza. Era un teatro musicale, a dire il vero, più adatto a veri attori, perché i sei cantanti, impeccabili nelle parti vocali, apparivano un po’ goffi nei movimenti. La componente musicale appariva un po’ fragile anche in altre performances, come The Mirror of Galadriel della russa Elena Rykova: un lavoro sul tema della comunicazione non verbale, dove due performer (la stessa Rykova insieme a Denis Khorov) si rispecchiavano dai due lati di un tavolo da ping pong “amplificato”, strisciando le mani e facendo rotolare delle pigne, e tutte queste azioni erano riprese e proiettate sullo schermo come una radiografia.
Una componente gestuale e iconoclasta dominava anche in molti lavori strumentali, come quelli eseguiti dall’ottimo Ensemble Ascolta. La si coglieva nella trama frammentaria e nel mix psichedelico di stili che caratterizzava Offener Vollzug di Dietrich Eichmann, nel gusto ludico di Kiste di Benjamin Scheuer, per pianoforte (Florian Hoelscher) e elettronica, che mescolava i rumori della meccanica dello strumento con vari oggettini e giocattoli usati come protesi del pianista. Molto poetico era invece il nuovo lavoro della compositrice ucraina Anna Korsun, UCHT, concepito come una piccola avventura sonora fatta di turbolenze e scricchiolii quasi impercettibili, che ricorreva anche a spaghetti schiacciati con un matterello sulla membrana della grancassa, ai multifonici del violoncello, a strumenti giocattolo, a richiami d’uccello, che concludevano il pezzo con un prolungato cinguettio. Sul mascheramento della voce giocava invece il nuovo pezzo per sei voci (dei Neue Vocalsolisten) di Boris Filanovsky, Endliche Melodie: il fantasioso compositore russo affidava a ciascun cantante una melodica, strumento semplice, intenzionalmente banale, usato come un prolungamento delle voce, che gli consentiva di mescolare suoni strumentali e vocali. Ma il pezzo risultava davvero lungo e privo di mordente, come un esperimento fallito. Una volontà estrema, radicale, nell’uso di voci “preparate”, era anche alla base di In the steppes of Sápmi (2014) di Ansgar Beste, pezzo per coro già eseguito lo scorso anno al Festival di Lucerna. Ispirandosi ai canti “Joik” delle popolazioni lapponi dei Sami, brevi melodie, vocalizzazioni che imitavano i versi degli animali, il compositore svedese (allievo di Furrer, Rihm e Francesconi) faceva cantare i coristi dentro degli spring drums (alcuni modificati con l’inserimento di un kazoo), ottenendo una polifonia fitta, aspra, incalzante, che evocava cerimonie religiose, i rituali sciamanici, molto ripetitivi, e insieme l’atmosfera di quelle regioni brulle, inospitali, sferzate dal vento. L’esecuzione era affidata all’ottimo SWR Vokalensemble Stuttgart, diretto da Marcus Creed, che ha presentato ance una novità di Beat Furrer, Spazio immergente II. Un autentico capolavoro: un doppio coro di trentadue voci accompagnato dalle percussioni (di Franz Bach e Daniel Higler), su un testo ricavato dal De rerum natura di Lucrezio, con magici effetti di sdoppiamenti, accelerazioni del flusso armonico, intrecci tra parti cantate e parlate, graduali aperture accordali, e continue trasfigurazioni della trama polifonica.
A Eclat c’è stato anche un focus sulla musica dei paesi nordici, in due bei concerti del norvegese Ensemble Cikada (diretto da Christian Eggen) e dell’Ensemble Uusinta di Helsinki (Diretto da József Hárs). Il primo ha suonato dei lavori molto interessanti di due emergenti compositori norvegesi, Possible Cities (2005) di Eivind Buene e Harmonium Repertoire (2016) di Lars Petter Hagen. Parte di un ampio ciclo, già piuttosto noto nei circuiti della musica contemporanea, Possible Cities è stato commissionato dall’Ensemble Cikada e dall’Ensemble Intercontemporain, e già inciso su un bel SACD e Blu-Ray Audio per l’etichetta norvegese 2L (083). Ispirato alla celebre frase di Italo Calvino «Non è la voce che comanda la storia, sono le orecchie» (dalle Citta invisibili), l’ampio lavoro partiva dalla suggestione delle esperienze acustiche che si hanno attraversando un ambiente urbano, dall’idea di catturare immagini sonore brevi, folgoranti, anche nei luoghi più fatiscenti, nei sobborghi industriali, di cogliere le contraddizioni, tipiche delle grandi metropoli, tra cemento e forze della natura, tra logica e caos. Ne veniva una materia strumentale varia, nervosa, molto movimentata, piena di invenzioni armoniche, con sibili, esplosioni, una scrittura materica del pianoforte, spogli squarci melodici che sembravano voci catturate nel silenzio: materiali eterogenei ma ben collegati tra loro, e di grande forza evocativa. Un potere quasi ipnotico emanava anche da Harmonium Repertoire di Lars Petter Hagen (che è stato allievo di Ferneyhough, Sciarrino e Jonathan Harvey), giocato su frammenti tardoromantici (da Bruckner, Strauss, Berg, Mahler, Schönberg), trasformati in lunghe armonie misteriose, sonorità avvolgenti, echi che sembravano venire da un altro mondo. Anche l’ensemble finlandese ha presentato pezzi di due “campioni” nazionali, ma meno interessanti: Peak di Sami Klemola era un lavoro rumoristico e “metallaro” per trio con pianoforte ed elettronica; Vanishing Point (2013) di Ville Raasakka (allievo di Veli-Matti Puumala e di Georges Aperghis), per pianoforte amplificato, prendeva invece spunto da una pagina pianistica di Wagner, Ankunft bei den Schwarzen Schwänen, per creare una trama di rumori sulla cordiera, punteggiata da brevi frammenti melodici. Più intrigante era il nuovo pezzo di Oscar Bianchi, Partendo, per controtenore (Daniel Gloger) e ensemble, eseguito sempre dall’Ensemble Uusinta. Anche Bianchi prendeva spunto da due pezzi del passato (il mottetto «O bone Jesu» di Palestrina e «Here the Deities Approve» di Purcell), come esemplari di bellezza e poesia in musica, sviluppando così il tema dell’Addio, del «Verlassen», della memoria storica che portiamo dentro di noi, in una materia sonora fatta di distorsioni armoniche, bolle di rumore, frammenti di canto (anche col megafono), poetici momenti di sospensione.
Tra gli appuntamenti più interessanti della rassegna, c’erano due “isole” di ascolto concentrato, due ampi lavori per strumento solo di Alberto Posadas e di Giorgio Netti. ll grande Christophe Desjardins ha eseguito Tombeau et Double per viola sola, che Posadas ha composto nel 2014 alla memoria di Gérard Mortier: un lavoro che sfruttava tutte le possibilità timbriche dello strumento, creando un ordito ricco, articolato, a tratti molto virtuosistico, basato su cambi di timbro, progressioni, proiezioni “frattali” di ornamentazioni barocche, con il Double concepito come una versione “zoomata” del Tombeau. ur I rito di Netti, per contrabbasso solo (con una doppia dedica, molto esplicita, «a Stefano Scodanibbio, l’esploratore poeta di questo strumento, e Gerard Grisey, che dal vuoto della sua IV corda ha saputo generare l’intero espace acoustique») era invece un pezzo dal contegno sacrale, quasi un ritorno alle origini della musica, attraverso l’esplorazione della doppia natura del contrabbasso, quella del suono pedale, e quella del basso continuo, «come motore nascosto di tutte le danze». Un pezzo profondo, molto espressivo, con una materia che evolveva in maniera organica, in un percorso labirintico (che richiamava il mito del Minotauro), tra suoni tesi e tenuti, brevi increspature, slittamenti armonici, capace di catturare l’attenzione del pubblico per quaranta minuti, grazie anche alla grande bravura del solista Dario Calderone.
Nel concerto del Klangforum Wien, Enno Poppe ha diretto il suo Koffer (2012), un collage di cinque brani dall’opera IQ, congegnati come un gioco di trasformazioni strumentali non solo delle parti vocali ma anche di tutti gli elementi scenici. Restava però l’eco della parola, il suo contenuto espressivo. E l’esito era molto originale, una musica “parlante”, ritmica e aggressiva, piena di distorsioni armoniche, di melodie deformate, di glissati, di materiali pulviscolari, che creavano un’atmosfera insieme ebbra e sinistra, con una temperatura drammatica sempre elevata. Catturava l’ascolto, nello stesso concerto, anche Anachronism (2013) di Georg Friedrich Haas, lavoro per sette strumenti, piuttosto sorprendente per l’impulso metrico costante (diverso dalla dimensione statica dei suoi lavori) che gli conferiva un’impronta “minimal”, pur restando il gioco delle metamorfosi, delle progressioni, degli slittamenti accordali, dell’espansione delle textures, delle grandi armonie spettrali. Completava il concerto un estroverso lavoro di Michael Pelzel (che è stato allievo di Haas), Sempiternal Lock-in (2013), per grande ensemble e arpa (solista Virginie Tarrête): prendendo ispirazione da una tecnica strumentale (delle percussioni) appresa in un viaggio in Sudafrica, il compositore svizzero ha creato una trama strumentale densa, dai complessi incastri ritmici, fatta di elementi diversi, spesso molto brevi, ma che tendevano a coagularsi in strutture compatte.
Due prime mondiali richiamavano infine l’attenzione nel concerto di chiusura della Radio-Sinfonieorchester Stuttgart des SWR diretta da Emilio Pomárico, direttore italiano che è diventato un vero ambasciatore della musica contemporanea nel mondo. Inviola.harmonium.orchester di Klaus Lang, titolo quasi tautologico per un pezzo per viola d’amore (Barbara Konrad), harmonium (Klaus Lang) e orchestra, i musicisti, disposti in varie postazioni nella sala, intorno al pubblico, e generavano una musica avvolgente, come una lunghissima vibrazione, punteggiata solo da piccoli glissati, tremoli, scale discendenti, come gocciolamenti. Cloud ground per violino e orchestra di Sergej Newski (solista Elena Revich), nasceva invece dall’idea del “Cloud” come una banca dati sterminata, contenente anche archetipi della tradizione musicale classica, che si intrecciavano con soluzioni avanguardistiche e elementi jazz, in una trama asciutta, tipica del compositore russo, ma in continua trasformazione. Completava il programma un pezzo collaudato e di successo come Void di Rebecca Saunders, ispirato ai tortuosi Texts For Nothing di Beckett: partitura dalla superficie policroma, sempre carica di tensione, dominata dai gesti plastici e sempre timbricamente differenziati dei due percussionisti solisti (Christian Dierstein e Dirk Rothbrust), figure aspre, graffianti, che alla fine suonavano come meccanismi fuori controllo.
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