di Giampiero Cane foto © Monica Ramaccioni
DOPO UN CONCERTO di Renaud Capuçon e Jérôme Ducros – i due avevano suonato musica di Mozart, di Ravel e di Strauss (Richard è ovvio) – qualche perplessità serpeggiava tra gli esperti, tre gatti di numero, ma non in sala. Il pubblico, più o meno anonimo, pareva entusiasta, stregato al punto da sopportare un bis con musica di Massenet, da Thais, e da chiederne ancora; ma tra gli addetti correva voce che il duo di violino e pianoforte non avesse eseguito la musica dei tre autori indicati, ma un qualcosa di proprio, forse la loro trasformazione di quel che era in programma.
La questione che si pone a questo punto è su che cosa sia un’interpretazione. Non dovrebbe essere difficilissimo porre le basi di una risposta, e direi che sia facile per tutti capirla se ce ne usciamo dal territorio musicale che, chissà perché, è un riservato dominio, e ne parliamo un momento in rapporto a qualcosa di più comune esperienza e conoscenza anche se fosse solo limitata.
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Ci si chieda e si ponga la questione di chi sia il protagonista, cioè a chi appartenga il senso caratterizzante de I Promessi Sposi (naturalmente un altro testo narrativo potrebbe essere egualmente appropriato, ma questo è forse il più noto, visto che ha avuto versioni cinematografiche e televisive e che è stato parodiato con una certa ricchezza, direi anche dal Quartetto Cetra). Ebbene ci sarà chi risponderà Renzo e/o Lucia, chi La nota Monaca, chi Don Rodrigo, chi la miseria e la peste, chi qualcosa d’altro tra cui Don Abbondio, che forse è il prototipo dell’italiano per il nostro Manzoni. Deciso il protagonista, la lettura del romanzo avrà da questi una conseguente lettura, che sarà diversa da quella di chi avesse optato per un protagonista diverso.
Il testo letterario è aperto, così come lo è un testo musicale. Più un testo è ampio e complesso e maggiori sono le divergenze interpretative che possono presentarsi. M’illumino d’immenso non avrà mai la polisemia non dico la Divina Commedia, ma più semplicemente de Il Sabato del Villaggio. Tradire un testo è piuttosto difficile: musicalmente bisognerebbe saltare delle note, evitare delle indicazioni dinamiche, mettere od omettere alterazioni; soprattutto tradire vuol dire far qualcosa contro.
Ora, diremmo che ciò non possa essere ascritto alle intenzioni di Capuçon e Ducros, ma che l’atteggiamento del duo fosse quello del mattatore, cioè di chi usi una parte per mettere sé in evidenza. Ma se il sé rimanesse mogio, asservito a un’immagine esangue non è da credere che possa poi risultare di un qualche interesse per lo spettatore. I destini dell’opera e quello dell’interprete sono in un certo momento legati l’un l’altro, ma non necessariamente sub speciae aeternitatis. Anzi. Però val più un sovraccarico di senso che non un possibile languire, o sfumarsi. Per quel che è, la partitura resta muta, in attesa di altre rivelazioni. Ha la medesima sorte dell’attore, la medesima necessità di risultare nella finzione, di emanciparsi dall’entusiasmo ingenuo.
Il pubblico per il quale i due francesi suonavano era quello del Festival delle Nazioni di Città di Castello, nella sua 49° edizione; un pubblico, come tutti i pubblici, generoso e caratterizzato dal desiderio di divertirsi, cosa che non succede se non rarissimamente a messa o a scuola, e s’è comportato secondo questa sua natura. Che Tzigane, la splendida pagina violinistica di Ravel potesse essere presa alla lettera come una rappresentazione d’una scena delle Mille e Una Notte non significa che alla prossima opportunità essa non possa presentarsi caratterizzata da quel minimo di gusto ironico che l’avvicinerebbe, crediamo, alle intenzioni di Ravel, il compositore. Del resto Ducros ebbe a ottenere una certa notorietà qualche anno fa opponendosi alle novità dell’espressione musicale coi luoghi comuni dell’indolenza borghese all’arte. Come argomento portava il fatto confessato di non capire le nuove musiche, definite tutte eguali. Vorremmo chiedergli quale sia il valore della Sonata n.21 di Mozart col suono prepotente di un pianoforte (il suo) che tutto pare ignorare della formazione del gusto nel corso della storia.
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