di Maria Cristina Riffero foto © Festival Puccini
Per commemorare i centocinquant’anni dalla nascita del compositore empolese Ferruccio Busoni il 62° Festival Puccini ha intelligentemente scelto di allestire, in parallelo, le due Turandot di Puccini e Busoni, un’esperienza questa assai arricchente sotto il profilo dell’approfondimento musicale e musicologico delle due opere e dei loro autori. Busoni scrisse Turandot, ampliando le Suite che aveva composto per l’allestimento teatrale della fiaba di Carlo Gozzi, per creare un dittico per l’Opera di Zurigo per cui stava scrivendo Arlecchino. La prima esecuzione assoluta avvenne l’11 Maggio 1917 ed è quindi anche lodevole che quest’opera, di rara rappresentazione per l’Italia, sia ritornata su un nostro palcoscenico verso l’approssimarsi del suo centenario.
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La fiaba di Gozzi, nel libretto scritto in tedesco da Busoni, vive a Torre del Lago ambientata in una scena unica che reca centralmente una grande tenda del deserto che è al tempo stesso simbolo di luogo esotico e di casa dai primordi dei tempi, secondo quanto ci insegna il modello della tenda/igloo di Mario Merz, per il quale essa era anche simbolo di artista nomade e tale fu Busoni nel corso della sua vita.
Essa rappresenta la stanza di Turandot e nell’aprirsi mostra un interno con tappezzerie ed arredi che rimandano ai quadri delle odalische di Henri Matisse. Inoltre il costume della protagonista (il soprano Cristina Martuffi) ricorda quello della figura femminile dipinta da Matisse nel quadro Meditation Apres le bain del 1920. Più al contesto cinese si rifà invece l’abito di Adelma, la principessa schiava di Turandot ed innamorata di Calaf, decorato con dei grandi ventagli in rilievo. Nell’occhio dello spettatore resta impressa la scena dello scioglimento degli enigmi, che hanno qui un contenuto diverso e filosoficamente più profondo rispetto a quelli pucciniani.
Il regista e anche scenografo Alessandro Golinelli ha introdotto infatti due mimi, che raffigurano dei geni, i quali, attraverso una sfera fatta roteare sulla testa e sulle orecchie di Calaf (il tenore Michael Alfonsi), lo illuminano delle risposte risolutrici. Elemento brillante della storia è il capo degli eunuchi di corte Truffaldino (il tenore Vladimir Reutov) che disprezza l’amore e il matrimonio dicendo: «Solo chi è debole e sulle sue gambe non sa stare vada in cerca di sostegno», il quale alla fine di questa lieta favola, in questa versione registica, contrae matrimonio con Adelma, contravvenendo al suo credo.
La sua recitazione eccellente e, dato che l’opera richiede la presenza di molti recitativi ai cantanti, tale capacità attoriale è lodevole, ricorda il brio con cui tante volte in palcoscenico Paolo Poli ha sostenuto ruoli en travestì. Di sicura fascinazione musicale sono i cori. Quello delle Lamentatrici che accompagnano la Principessa di Samarcanda che ha perso il figlio, il quale non è stato in grado di risolvere gli enigmi di Turandot.
In scena però non si vedono le teste mozzate degli sconfitti: sono i mimi, nuovamente, a rendere con una danza, tra l’automa e il marionettistico, il senso della decollazione a cui i perdenti vanno incontro. Degno di nota è anche il coro che apre il secondo atto, ambientato nelle stanze di Turandot. Il direttore d’orchestra, Beatrice Venezi, pianista che per la prima volta si cimenta con l’opera, puntando su giovani interpreti, dirige con brio la brillante musica della fiaba se anche si trova con un’orchestra, a mio avviso, non bene proporzionata, in quanto i fiati e le percussioni erano a parti reali ma gli archi erano dimezzati. Inoltre l’Auditorium Caruso, in cui si è scelto di allestire l’opera, è più adatto per conferenze o concerti che per spettacoli teatrali.
La sala coperta non è scalata, il palcoscenico non è adeguatamente rialzato e l’orchestra è a livello del pubblico, quindi si sono dovuti ridurre gli strumentisti per evidente scarsità di spazio. Nonostante ciò, con questa disposizione, spesso l’orchestra copriva le voci dei cantanti, specie di Calaf e rendeva non perfetta la vista della scena. Inoltre si è scelto di rappresentare l’opera in italiano non restando, però, in diversi punti fedeli al testo originale.
Questo per quel che riguarda le battute di Pantalone e Tartaglia, maschere della Commedia dell’Arte, nella fiaba ministri della corte di Altoum, padre di Turandot (il Basso Davide Mura), che qui parlano dei carri allegorici del Carnevale di Viareggio, città di cui Torre del Lago è frazione. Inoltre gli stessi apostrofano Turandot:“Vipera!Rospo!Strega!” parodiando, caricaturalmente, il bisticcio tra Marcello e Musetta nel terzo atto della Boheme di Puccini.
Scelte queste, a nostro avviso, poco opportune, come pure fare la pausa tra i due brevi atti; durando l’opera meno di un’ora e mezza un ascolto unico avrebbe meglio conservato il pubblico nel clima fiabesco. La sala, sui trecento posti, era comunque quasi esaurita e gli applausi sono stati calorosi, segno che è giunta l’ora di riscoprire Busoni nel suo paese natale stuzzicando la curiosità per la musica di questo italiano trapiantato in Germania nei suoi connazionali.
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