di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
IL PUBBLICO ITALIANO si sta (troppo) lentamente abituando al teatro di Britten. Ci sono ancora molti posti vuoti in teatro, soprattutto quando i titoli in programma non sono quelli più famosi, come Peter Grimes, ma il fascino di una concezione artistica raffinatissima, la devianza dai più caratteristici “ismi” novecenteschi e naturalmente le allusioni – quasi sempre implicite, nascoste – a una sessualità piuttosto problematica sono tutti elementi che suscitano una indubbia curiosità negli spettatori. Tratto dall’omonimo racconto di Henry James, The turn of the screw sembra fatto apposta per provocare nel lettore una curiosità morbosa senza che vi siano nel testo elementi sufficienti a giustificarla. E una storia di fantasmi, comune nell’Inghilterra tardo-vittoriana, diventa una meditazione sul tema dell’infanza violata, complici i pur inquietanti personaggi di Peter Quint e di Miss Jessel e l’intelligenza un poco sadica dei piccoli Flora e Miles.
[restrict paid=true]
Le vicende personali di Britten, il richiamo continuo a situazioni dove il rapporto tra adolescenti e adulti sfiora l’argomento tabù della pedofilia sono certamente ingredienti presenti nell’opera, ma se da un lato risulta assai interessante esaminare in dettaglio il paravento tecnico-musicale utilizzato dal compositore per mascherare gli aspetti più conturbanti della vicenda (modalità notoriamente applicata da Berg nel Wozzeck), è pur vero che una regia intelligente di The turn of the screw non insisterà mai sul “non detto” e non si spingerà mai a sottolineare una possible lettura di ogni particolare in chiave scandalistica. Qualcuno aveva osservato come James non avesse esplicitamente suggerito chiavi di lettura estreme per il suo racconto, e tutto sommato la malizia proviene da quella parte di lettori che vogliono per forza di cose interpretare i fatti a senso unico. È capitato ad esempio l’altra sera, in occasione della prima esecuzione dell’opera alla Scala in lingua originale, che la causa dell’allontanamento del piccolo Miles dalla scuola, inciso non certo fondamentale nel racconto e lasciato nel vago da James, sia stato interpretato da una spettatrice grazie alla ovvia (?) supposizione secondo la quale il bimbo si sarebbe masturbato in classe (!). È pur vero che l’intervento musicale di Britten è leggibile come una complesso pezzo di virtuosismo tramite il quale il compositore nasconde argomenti proibitissimi (e non solo nell’Inghilterra di tempi a noi relativamente vicini) e accenna a legami tra (omo)sessualità e pedofilia quasi a giustificarne una necessaria complementarità.
Il regista Kasper Holten si è allontanato non poco dalla visione “gotica” dell’opera, insistendo soprattutto sul carattere nevrotico della protagonista, la Governante efficacemente sostenuta dal soprano Miah Persson. È lei, tutto sommato, la narratrice dei fatti nel racconto, e quindi per definizione ci offre un resoconto discutibile dell’accaduto. Lo scenografo Steffen Aarfing ha deliberatamente sostituito la torre della villa e il lago nel parco con una più prosaica struttura di camerette su tre piani e con uno scantinato cui si accede tramite una scala a chiocciola. Lì e in un salone borghese con un pianoforte a coda si muovono i protagonisti, quelli veri in carne e ossa e quelli già morti, o “non morti”. Una struttura simbolica che potrebbe anche essere interpretata in chiave psicanalitica andando a frugare nell’inconscio della Governante.
Eschenbach, direttore che – complice anche un aspetto vagamente luciferino – sembra intrattenere con il soprannaturale un legame non superficiale, è stato concertatore abilissimo e ha saputo leggere in profondità tutti gli aspetti del lavoro di Britten, meritando alla fine applausi sinceri da parte del pubblico. La Persson ha giustamente concentrato su di sé la gran parte delle attenzioni, mentre il quotatissimo Ian Bostridge, vuoi per la vocalità contorta assegnatagli da Britten e da lui dominata in maniera assai spontanea, vuoi per il carattere inquietante del personaggio, è passato lievemente in secondo piano. Ottima la Mrs. Grose di Jennifer Johnston e non particolarmente significativa la Jessel di Allison Cook. Sufficientemente a proprio agio nelle loro difficili parti i due bambini, Sebastian Exall e Louise Moseley, che provengono dal Trinity boys choir. La partitura richiede solamente pochi strumentisti (con effetti timbrici di raffinatezza estrema) che sono stati scelti accuratamente tra i professori dell’Orchestra della Scala, anch’essi alla ribalta al termine dell’opera per ricevere gli applausi del pubblico.
[/restrict]