di Stefano Cascioli foto © Marc Ribes
Apertura di gran classe per la stagione 2016-17 del Teatro nuovo Giovanni da Udine. Sul palco, il celebre pianista Nicholas Angelich e l’Orchestra sinfonica di Lucerna diretta da James Gaffigan, hanno proposto un accostamento affascinante, dal forte sapore americano: il Concerto in fa di Gershwin, e l’Ottava sinfonia di Dvořák. Numerosi sono gli aspetti che hanno legato la serata al mondo d’oltreoceano: sia solista che direttore provengono dagli states, il concerto di Gershwin è tra le pagine del Novecento americano più note, e lo stesso Dvořák, a fine ’800, pochi anni dopo il compimento dell’Ottava, scrisse a New York alcune tra le sue opere più celebri, compresa l’ultima sinfonia “Dal nuovo mondo”.
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Destava interesse l’esibizione di Angelich, non solo per l’indiscussa fama che ha raggiunto negli ultimi anni, ma anche per la proposta di un concerto così particolare. Il Concerto in fa di Gershwin è forse l’opera in cui meglio si fondono i ritmi, le improvvisazioni e l’orchestrazione del jazz, alla forma del concerto tradizionale (Allegro – Adagio – Allegro), struttura cardine della musica “colta”. Proprio per questa sua affascinante simbiosi, il concerto è stato storicamente eseguito in molteplici versioni, sia da jazzisti che da pianisti tradizionali, e incuriosiva l’approccio alla partitura di un pianista come Angelich, classico ed americano al contempo, che il pubblico ha imparato ad apprezzare soprattutto per le sue incisioni di Brahms, il cui pianismo è decisamente agli antipodi rispetto alla scrittura di Gershwin.
In effetti, la lettura di Angelich ha stupito per la sua singolarità. Il nostro esecutore dimostrava una profonda conoscenza della struttura, ed ha rifiutato quell’approccio istintivo ed improvvisativo che solitamente si considera un imperativo del pianismo gershwiniano. Tempi comodi, cura maniacale del suono (in particolare nella profondità dei piani, evitando qualsiasi asprezza nei forti), unita ad una cantabilità esasperata hanno donato mezz’ora di un ascolto poetico e raffinato.
Non una buona simbiosi quella dell’orchestra col solista. In certi momenti le proposte musicali divergevano notevolmente, le idee riflessive del pianista non coincidevano con l’estro danzante del direttore, che divertiva l’orchestra con un approccio leggero e brioso, a scapito di qualche imprecisione d’insieme, soprattutto nel delicatissimo blues del secondo tempo.
Applauditissimo da un pubblico entusiasta, il pianista ha concesso due bis chopiniani, in cui ha ulteriormente confermato il suo agio meditativo alla tastiera. In un’epoca dove l’intero mondo, non solo la musica, viaggia ad una velocità tale che non abbiamo né tempo né modo di soffermarci per riflettere, ascoltare un pianismo così distante dalla frenesia quotidiana non può che rasserenare i nostri animi turbati e, ahimé, sempre più apatici.
Nella seconda parte della serata, la sinfonia di Dvořák non ha ingannato le attese. Certo, la lettura tradizionale non ha proposto spunti interpretativi nuovi, ma una pagina così affascinante garantisce sempre un forte impatto all’ascolto. Buona prova dell’orchestra svizzera, soprattutto degli archi (strepitosa la sezione dei celli, e coinvolgenti i soli della spalla, sia nel Concerto che nella Sinfonia), mentre i fiati non erano sempre amalgamati alla perfezione nell’Adagio. Il gesto variegato del talentuoso direttore ha reso al meglio nei due movimenti conclusivi: l’Allegretto grazioso, un ballo affettuoso e nostalgico, ha colpito per morbidezza, mentre lo scoppiettante Allegro finale ha esaltato il pubblico, a cui sono stati concessi come bis, per rimanere in tema, i due movimenti finali della suite americana di Dvořák.
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