di Luca Chierici
TEMPI DURI per il nostro Wolfgang Amadeus. Dopo le recenti “rivelazioni” di due musicologi italiani che si accaniscono nello smontare pezzo per pezzo l’opera di uno dei più grandi geni mai esistiti andando a scoprire l’acqua calda, ossia insistendo sulla negatività di particolari noti a tutti, come l’intervento del padre Leopold nella stesura delle prime composizioni o le correzioni di Padre Martini durante la famosa prova d’ammissione all’Accademia di Bologna, è la volta oggi di una regìa dissacrante che nelle intenzioni avrebbe dovuto cambiare il modo tradizionale di concepire Le nozze di Figaro, unanimemente considerato uno tra i massimi capolavori musicali di tutti i tempi. È accaduto ieri sera che una nuova produzione che avrebbe dovuto rottamare il lodatissimo allestimento Strehler-Frigerio-Squarciapino in carica alla Scala dal 1981 si è risolto in uno spettacolo di pessimo gusto, degno del peggiore Regietheater possibile. Il compito era stato affidato a Frederic Wake-Walker, talentuoso e simpatico inglese al suo debutto scaligero, autore di alcuni indovinati lavori al Festival di Glyndebourne, al Covent Garden e in altri importanti centri musicali.
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Un assaggio di ciò che doveva essere l’impronta dello spettacolo lo si è avuto poco prima dell’inizio dell’Ouverture, quando è stata portata in scena la poltrona originale che era stata utilizzata da Strehler come elemento chiave della famosa scena dell’atto I in cui Cherubino tenta goffamente di nascondersi agli occhi del Conte e di Don Basilio, capitati nella stanza di Susanna. Poco dopo la poltrona verrà “scasciata”, come si dice in Salentino, grazie a un provvido balzo di Figaro sulla stessa. Fin qui nulla di male, se pensiamo che il vitalismo anticonformista di Figaro è uno degli elementi chiave dell’opera. Anche Strehler aveva insistito non poco sul rapporto conflittuale tra Figaro e il Conte, quando ad esempio lo stesso Figaro si divertiva a trattare energicamente con un battipanni i vestiti del padrone al suono di «Se vuol ballare». Dato che il totem della poltrona di Strehler era stato citato – ma coperto di mistero – persino nella conferenza stampa di presentazione di questo allestimento, si pensava però a chissà quale trovata che avrebbe dovuto far colpo sui presenti.
Tutto l’incipit dello spettacolo era comunque giocato sul cantiere di preparazione delle scene dell’opera intera (espediente visto e stravisto) che anticipava il funzionamento della solita struttura circolare girevole adatta al trasferimento indolore dell’ambientazione durante i quattro atti dell’opera stessa. Espediente che movimentava fin troppo una situazione già complessa come da libretto e che attirava l’attenzione su un Figaro vero e proprio Deus ex machina della Commedia. E già si iniziava a notare negativamente un altro ben noto e censurabile vezzo, quello tipico dei registi stranieri che devono per forza di cose illustrare l’andamento dell’azione attraverso il gesticolare dei personaggi. Gli Italiani un poco cafoni, si sa, usano mani, braccia, corpo per farsi intendere e allora via a indici puntati quando si canta «il birbo Figaro VOSTRO sarà» , per non parlare di cosa succede nel grande finale secondo allorché Marcellina, Basilio, Bartolo e il Conte scandiscono il magnifico «Che bel colpo, che bel caso ! È cresciuto a tutti il naso!.
Le “trovate” continuano con le gag del vecchio suggeritore seduto ai lati del palcoscenico, che ogni tanto imbecca i cantanti che si sono dimenticati la parte. Mimi (Mime ? Mimesse ?) nerovestite con spoporzionati chignon fanno da contrappunto all’azione durante tutta l’opera ingegnandosi a commentare l’incommentabile. L’Atto II si apre con una bella scena che illustra la “Camera ricca con alcova”: alle pareti grandi vedute naturalistiche nello stile dell’epoca e in generale una disposizione che ricorda le scenografie più sfarzose delle Nozze o del Rosenkavalier. Non preoccupatevi: anche questi dipinti spariranno presto grazie all’indefesso lavoro dei mimi-imbianchini che tingeranno tutte le pareti di bianco, un bianco accecante e super-illuminato che dominerà l’intera ambientazione dell’Atto IV, il “folto giardino” notturno che dovrebbe essere immerso nell’oscurità. Il fraintendimento più vistoso lo si percepisce però nel grande finale dell’Atto secondo, uno dei più straordinari mai scritti. Il regista lo sovraccarica di presenze, aggiungendo i mimi al già notevole numero di personaggi in scena e lo trasforma per carattere a uno di quegli irresistibili finali rossiniani alla Italiana in Algeri, cioè imponendo alle Nozze di Figaro un carattere di opera buffa che è assai limitativo. Non penso che Wake-Walker abbia avuto presente il contraddittorio che aveva caratterizzato ai tempi l’intervento di Claudio Abbado nei confronti di Rossini e Mozart, là dove si era detto che il grande direttore aveva svolto un lavoro encomiabile nel sottolineare gli aspetti mozartiani nel Rossini buffo ma che aveva di contro fallito nella sua prima lettura delle Nozze di Figaro (1974) dove (con molto più gusto!) aveva tentato l’operazione contraria. Sta di fatto che il gioco, dal punto di vista scenico, non regge se non per il superficiale divertimento di certo pubblico di bocca buona (molti gli stranieri presenti in sala).
Non mancano – e come astenersi da ciò in una commedia che vive anche del fascino dell’ambiguità sessuale e della sfrenata voglia di infrangere le regole propria non solo del personaggio di Cherubino – riferimenti più che espliciti, anch’essi di dubbio gusto, che si può ben capire avvengano durante la scena della vestizione del paggio (persino con un parziale tentativo di blow-job da parte della Contessa) o in quello del finale terzo, dove il Conte (che nel quarto si presenterà persino a torso nudo sotto il mantello nero) si accompagna a due discinte ballerine di can-can. Il colmo lo si raggiunge nell’atto quarto, dove il notturno giardino è solamente accennato in pianta sul fondale e alla già assurda luminosità imperante si aggiunge l’incomprensibile ruolo di un grande lampadario di cristallo all’interno del quale a un certo punto si accomoda la Susanna. Tutto il mirabile gioco di equivoci e travestimenti si risolve in un confuso accavallarsi di personaggi che si muovono in maniera scomposta come a scompigliare volutamente quel capolavoro di simmetrie di affetti che era uscito dalle penne di Mozart e da Ponte.
Maggior fortuna hanno avuto gli ascoltatori che hanno seguito queste Nozze di Figaro attraverso la diretta radiofonica, risparmiandosi tutti gli interventi che abbiamo cercato sommariamente di descrivere e che rappresentavano un elemento di distrazione tutt’altro che sottovalutabile all’interno della serata. La concertazione di Franz Welser-Moest ci è sembrata sufficientemente funzionale, senza elementi di grande pregio, e con una tendenza a un allargamento dei tempi che, soprattutto nel primo atto, generava un certo senso di staticità che è del tutto contrario alla straordinaria dinamica propria di quest’opera. Di contro, il direttore staccava un tempo insolitamente veloce per la “marcia di Cherubino” e soprattutto non curava sufficientemente la calibrazione delle voci nelle grandi scene d’assieme, nelle quali in molti casi le linee secondarie si percepivano come dominanti rispetto a quelle primarie. La serata è stata salvata soprattutto da una compagnia di canto di indubbio spessore all’interno della quale si notavano sicuramente il Figaro di Markus Werba, all’altezza dei grandi esempi del passato e dotato di una atleticità non indifferente in scena, la Contessa di Diana Damrau, che ha riscattato nel seguito un piccolo incidente iniziale nella sua aria d’apertura e nel precedente recitativo piuttosto bisbigliato, il Conte dell’espertissimo Carlos Álvarez, il raffinato Cherubino di Marianne Crebassa e la volitiva Susanna di Golda Schultz. Di notevole spessore è stata la Marcellina di Anna Maria Chiuri.
Il pubblico ha applaudito con convinzione, anche se non con particolare entusiasmo sia i responsabili dell’allestimento che il direttore e i cantanti tutti. Assente qualsiasi tipo di contestazione da parte del Loggione, che in altri tempi e forse solamente nel repertorio più tipicamente italiano avrebbe sicuramente fatto sentire in maniera rumorosa il proprio dissenso.
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