Il Teatro Comunale chiude la stagione col suo migliore spettacolo del 2016: lettura musicale e teatrale formano un tutt’uno esemplare, anche grazie a una compagnia di canto con alte referenze e qualche novità
di Francesco Lora foto © Rocco Casaluci
L’inaugurazione della nuova stagione d’opera avverrà soltanto il prossimo gennaio, con Die Entführung aus dem Serail di Mozart e senza alcun divo del canto in locandina. Per questo, anzi comunque, lo spirito dell’apertura in pompa magna è slittato all’ultimo e più significativo spettacolo del 2016 al Teatro Comunale di Bologna: sei recite del Werther di Massenet (15-23 dicembre), interpreti da capogiro sulla carta e migliori ai fatti, pubblico e critica di provenienza internazionale, caccia al biglietto commisurata alla grande occasione. Orecchi puntati sull’arcidivo Juan Diego Flórez, al suo debutto italiano e scenico nella parte, dopo un’esecuzione in concerto a Parigi; orecchi da puntare con pari ragione su tutto ciò che lo circonda. Ma occhi e discernimento teatrale sono da rivolgere innanzitutto al nuovo allestimento con regìa di Rosetta Cucchi, scene di Tiziano Santi e costumi di Claudia Pernigotti: tutto ne fa la più acuta lettura drammaturgica dell’opera oggi in circolazione, insieme con quella concepita due anni fa da Graham Vick per il São Carlos di Lisbona.
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Si vede la profonda e distinta caratterizzazione psicologica, gestuale e di ruolo in ogni personaggio, con controscene che rinsaldano le relazioni interne: per esempio, nell’atto I, l’appassionato appartarsi di Werther e Charlotte intenti alla lettura dei Canti di Ossian. Si vede l’inesorabile separazione del fosco mondo del protagonista da quello brillante degli altri personaggi: quella stessa separazione che il libretto tuttalpiù ispira, ma che la musica realizza in modo irreversibile, e che solo un regista padrone della partitura saprebbe cogliere ed esaltare. Si vede il reciproco sostegno di dramma e palcoscenico, massimamente quando, chiudendosi il sipario sul primo quadro, la casa di Charlotte, ella stessa e il raggio luminoso vanno sparendo lontani sul fondo: è il miraggio di Werther che si dilegua, con la concretezza mai prima così duramente rappresentata. Si vede, infine, uno spettacolo da rivedere una seconda e una terza volta per apprezzarne il ricco messaggio: una volta compreso e meditato, quando se ne parla, fa tremare la voce e bruciare gli occhi.
Illuminante è il ponte teso tra il palcoscenico e il golfo mistico, ossia tra l’idea teatrale e il discorso musicale. Michele Mariotti è un concertatore nato per l’opera e per il Romanticismo italiano in particolare; in quanto direttore stabile a Bologna ha da maestranze e pubblico l’amicizia e il sostegno goduti da nessun altro in Italia; e in lui risiede la maggior autorevolezza di un teatro altrimenti avviato, da una dozzina d’anni in qua, a una preoccupante crisi identitaria. Egli ha ora approfondito il linguaggio del tardo Ottocento, facendo scintille nel primo Mahler e programmando un’imminente Cavalleria rusticana; fatto forte da un’orchestra che lo seguirebbe ovunque e con nessuno suona meglio che con lui, dà dunque saggio di un Massenet setoso nella tecnica e lancinante negli affetti, con un dominio dei tempi drammatici tale da lasciare esausto l’ascoltatore: la partitura prende a respirare tra impeto, estenuazione e verità, i cantanti mettono entusiasticamente le ali alla voce, il battito cardiaco dell’intera sala finisce col pendere dalla sua bacchetta.
E ora Flórez, tenore che ben fa ad ampliare con ambizione il repertorio, per appagare sé stesso e gli ammiratori mai sazi. In barba al luogo comune, attendere i vent’anni di carriera per esordire nel Werther non lo ha agevolato; la fatidica parte gravita su una tessitura centrale, fronteggia una strumentazione ponderosa e implica un porgere di sottigliezza superiore; col tempo e in controtendenza, però, la voce di Flórez si è snellita nell’impasto e moderata nel volume, ha mantenuto l’agio nel registro sopracuto – sottolineato da un legato oggi ancor più facile che agli albori – e ha guadagnato in gusto ed elegia anziché in forza e squillo. Ne deriva un Werther fragile e adolescenziale, predestinato alla sconfitta, agitato più dalla disperazione che dalla protesta, studiato con attenzione capillare ma votato ad attonita monotonia: teatralmente efficaci, tali caratteri pongono Flórez agli antipodi, per esempio, del coetaneo Giuseppe Filianoti, che abbordando giovanissimo la parte già vi profondeva stupenda erudizione retorica e trascinante impeto romantico.
Più che all’altezza di Flórez si pone, come Charlotte, il mezzosoprano Isabel Leonard, statunitense di nascita e carriera, còlta qui in un’ancor rara apparizione europea e al suo folgorante debutto in Italia. Si distingue per nobiltà di figura, calore di recitazione, incisività di parola e generosità di canto: un sostanzioso registro centrale convive con un registro acuto svettante, e l’attitudine a un’emissione morbida e sfumata sì, ma con tratti di austero e solenne, dà garanzia di un personaggio con inusitato spessore tragico. Un Albert di riferimento è a sua volta il baritono Jean-François Lapointe, unico madrelingua nella compagnia: con mezzi e stile impeccabili si mantiene rispettosamente un passo indietro rispetto alla coppia protagonistica, salvo poi sapersi imporre – così nell’atto III – con la sapienza d’accento di una singola parola insinuante. Il novero delle prime parti è completato da Ruth Iniesta, una Sophie che illustra la gioia di vivere, le esitazioni della pubertà, il contrasto con la sorella, la fragranza di un canto briosissimo e mai evanescente.
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