Implosa per vari motivi dopo la morte di Abbado, la compagine ha inaugurato un nuovo corso, in concerto a Bologna con Haitink: un’identità da reinventare nell’eccellente qualità tecnica
di Francesco Lora foto © Marco Caselli Nirmal
Una macchina da guerra a implosione programmata: queste, ai fatti, la cinica genesi e la sorte inevitabile dell’Orchestra Mozart, che tra le numerose compagini volute da Claudio Abbado è stata la più magnifica e altezzosa, ma insieme la meno generosamente condivisa, come un patrimonio personale non separabile dal monarca. Varata nel 2004 e residente a Bologna, in seno all’Accademia Filarmonica, ostentava nelle proprie file il violino di Giuliano Carmignola, il violoncello di Enrico Bronzi, il flauto di Jacques Zoon, il clarinetto di Alessandro Carbonare, il corno di Alessio Allegrini, e molti altri che significano l’ottimo nei rispettivi strumenti. Una sola manciata di concerti per anno, memorabili uno dopo l’altro fin quasi ad annoiare; pubblico in gran parte selezionato tra sostenitori e fedelissimi; sovvenzioni che hanno fruttato anche il rilancio dell’Accademia – un circolo inerte ora tornato al centro della vita musicale felsinea – ma che, venute a mancare, hanno lasciato la storica istituzione da sola di fronte alle difficoltà. I battenti si sono chiusi all’improvviso, nel 2014, con la morte di Abbado e la dissoluzione della sua corte: senza il divo Claudio, la mirabolante orchestra ad personam forse non interessava più agli sponsor sin lì fedeli, né alla città di Bologna già traboccante di più abbordabile produzione artistica, né all’uditorio itinerante troppo ciecamente fissato nella sua fede monoteistica.
L’operosità dell’Accademia Filarmonica, coraggiosa fino all’insolenza, e le braci dell’Orchestra Mozart, covanti sotto la cenere, hanno però consegnato al 2017 un fenomeno con nome vecchio e – si auspica – nuova sostanza: il 6 gennaio nel Teatro Manzoni, dopo tre anni pieni di silenzio, la compagine si è riaggregata e, simbolicamente, ha ripreso il discorso dove interrotto. Nelle file d’orchestra si sono rivisti, prima ancora che le storiche prime parti altrove distratte, quelli che per dieci anni ne han fatta la polpa; al rango di solista ospite, col suo violino, è tornata Isabelle Faust, già assidua collaboratrice di Abbado e della Mozart; sul podio è salito Bernard Haitink, lo stesso direttore che nel dicembre 2013 – ultimo concerto dell’orchestra, senza che lo si sapesse – aveva sostituito il maestro ammalato. Il programma stesso è sembrato sintetizzare le distinte volontà di rinascita, quotidianità e riformulazione: l’Ouverture all’Egmont è il brano che, nel segno di Beethoven, avviò allora come oggi il primissimo concerto dell’Orchestra Mozart; il Concerto per violino e orchestra, anch’esso beethoveniano, e la Sinfonia n. 3 “Renana” di Schumann hanno invece altro ruolo: si inseriscono in percorsi già indagati da Abbado con la Mozart, mettendo da parte il Salisburghese in favore del pieno Romanticismo tedesco, ma costituiscono un impegnativo arricchimento di repertorio per l’orchestra e una rinuncia a partiture più trascinanti all’ascolto e più atte all’autocelebrazione.
A chi recensisce farebbe comodo dire – quieto vivere – che la fenice è risorta dalle sue ceneri, tal qual era. Ma il nuovo ciclo della Mozart, che può e deve continuare, si preannuncia affatto differente da quello che lo ha preceduto. La qualità tecnica dei singoli elementi non si discute tanto è eccellente; ma dopo tre anni di silenzio l’identità dell’orchestra – un’orchestra che merita un’identità – è tutta da riformare, non solo restaurando ma anche reinventando. Con altre parole, poi, occorre ripetersi. La Mozart, lussuoso giocattolo dell’ultimo Abbado, ha fornito alla mente geniale del maestro materia inconfondibile che altra bacchetta non potrà più suscitare. Soltanto in quella fisionomia sonora la Mozart ha avuto alta consapevolezza di sé, e soltanto affrancandosi dallo spettro di Abbado, dopo l’omaggio a lui dovuto, potrà guadagnarne una nuova, libera, autonoma e perpetua, al pari delle grandi orchestre sinfoniche internazionali. Lo sforzo fatto è già encomiabile. Quanto al concerto in sé, esso è valso soprattutto a rivangare il passato, sbalzando in primo piano ciò che con nostalgia si vorrebbe rivivere ma non v’è più, e dando una paradossale precedenza al passato remoto del far musica su quello prossimo.
Nel primo caso si allude per esempio agli applausi ritmati di un pubblico che si è forzato a recuperare il cerimoniale delle serate abbadiane: ma il gesto risuona, oggi, per ora, torvo e mesto anziché come spontaneo atto liberatorio innanzi all’artista amato. Nel secondo caso ci si riferisce invece al modello di lettura professato da Haitink. Ottantasette anni impeccabili, egli è il decano in carica tra i plenipotenziari del podio; come tale – e come i Mehta, i Barenboim e i Muti che, a differenza di Abbado, mai si sono interessati a una retorica e a una fonetica musicale storicamente informate – egli indirizza tutta l’attenzione sulla qualità del suono prima che sull’intenzione della frase. Il suo Beethoven e il suo Schumann risultano così a maglie impenetrabili, come gli ultimi romantici visti da un Novecento invecchiato, ossia teterrimi e assorbenti nel colore, affondati e poderosi nel legato, guidati a tanto lento passo da esaltare sì i timbri dell’orchestra e da regolarne il grado di fusione, ma da imporre anche una prova di bravura affinché la frase rimanga sostenuta lungo arcate eterne. Ecco attesi, se ciò si voleva, gli antipodi di Abbado. Per unione di contrasti, sullo sfondo di Haitink si chiarisce tanto meglio la vocazione della Faust, al contrario sempre asciutta, esatta, delicata, espressiva con studiosa ritrosia, lontana dal concedersi zampate virtuosistiche e dall’accordare un gigante al suo Beethoven.