di Luca Chierici foto © Brescia & Amisano
PRESENTANDOSI nuovamente al pubblico milanese della Scala, dopo un periodo di riposo dovuto al recupero di non felici condizioni fisiche, Pollini ha scelto di ritornare dopo tanto tempo all’amato Schönberg, di cui ha eseguito i Klavierstücke op. 11 e op. 19. Sono questi due testi che hanno rappresentato una svolta radicale nel pianismo del primo Novecento e che per lungo tempo hanno rappresentato una scelta d’obbligo solamente per pochi iniziati. È da tutti giustamente riconosciuto il fatto che Pollini sia stato negli anni Settanta non proprio uno scopritore dell’opera omnia pianistica schoenberghiana – che sta tutta in un disco da lui inciso nel 1975 – ma senz’altro il pianista di grande successo che ha imposto definitivamente il nome della figura carismatica della seconda Scuola di Vienna nel comune repertorio concertistico. La perentorietà della proposta di allora si è felicemente attenuata verso il recupero di una certa vena nostalgica che accomuna questi pezzi schoenberghiani ai tardi Klavierstücke di Brahms (altro raggiungimento assoluto nel repertorio del pianista milanese). In questo senso l’esecuzione di Pollini ci faceva pensare a una continuità nei confronti del passato piuttosto che a una dichiarazione di rottura, e ci ricordava come un compositore d’avanguardia non così radicale, e allo stesso tempo immenso pianista – Ferruccio Busoni – avesse pubblicato una “versione da concerto” dei Klavierstücke op. 11 smussando certe asperità puramente attinenti alla scrittura per il pianoforte.
Dalla seconda alla prima Scuola di Vienna il passaggio era quasi obbligato, e Pollini ha scelto in questo caso tre sonate da lui affrontate per la prima volta in tempi differenti. La Patetica venne da lui eseguita in pubblico per le prime volte alla fine degli anni Ottanta, e già allora non convinceva del tutto per la troppo spiccata post-datazione: la Sonata in do minore risale al 1798-99 e in essa è comunque presente un coté settecentesco che esce allo scoperto nel finale ma anche in alcuni passaggi veloci nel primo movimento. Certo la disposizione pianistica dell’Adagio è già pienamente ottocentesca, si direbbe a tratti brahmsiana. Ma Pollini, con minore maestria digitale di un tempo, ha insistito nell’eccessiva drammatizzazione dei contenuti di tutta l’opera 13, cercando nei fatti di contraddire il famoso pensiero di Busoni, secondo il quale il musicista di Bonn là dove ricordava Mozart (il Mozart della grande sonata e della relativa Fantasia in do minore, in questo caso) era addirittura “insignificante e plagiario”.
Nella sua ricerca sul penultimo Beethoven, e per portarsi avanti verso il traguardo di una integrale beethoveniana faticosamente raggiunta nell’arco di quasi quaranta anni, Pollini aveva presentato in pubblico poco prima (alla Scala nel 1986) la Sonata in fa# maggiore op. 78 che la tradizione vuole legata al nome di Therese von Brunswick, forse la figura femminile con la quale il musicista aveva stretto il legame spirituale più intenso. Anche in quel caso la lettura di Pollini fu molto provocante e ne uscì fuori un discorso scintillante di preziosismi pianistici e di espressività incontenibile, complice una scelta di tempi più veloce del solito. A quell’idea Pollini è stato fedele anche in quest’ultimo appuntamento con il pubblico, così come è stato fedele alla bruciante visione di una Appassionata anch’essa proiettata in un luogo dove il tempo non scorre secondo parametri rigidi e dove non si discute nemmeno se possa esistere una minima parentela tra questo capolavoro e le moltissime sonate nella stessa tonalità – nella tradizione classica legata a sentimenti di passione sofferta, patetismo, persino di cordoglio funebre – scritte da compositori coevi. Dal punto di vista strettamente manuale l’Appassionata è da sempre stata un cavallo di battaglia del pianista milanese e anche questa volta l’esecuzione dell’intera sonata e l’accumulazione del furore espressivo nel finale ha portato il pubblico ad esternare una vera e propria ovazione al termine di una prova tuttora ammirevole sotto il profilo tecnico oltre che espressivo. Bellissimo l’Andante e davvero istruttivo il primo movimento, dove il pianista ha dimostrato ancora come un fattore apparentemente tecnico-strutturale – lo “sviluppo” del secondo tema – esprima sotto le sue dita anche un evidente significato di espansione delle emozioni.
Come di consueto, Pollini ha offerto dei bis rigorosamente appartenenti agli autori in programma, o meglio, in questo caso, all’autore che nel programma occupava la parte più cospicua. Due Bagatelle beethoveniane dall’op. 126, anch’esse da sempre nelle corde e nel repertorio del pianista hanno assicurato il felice commiato dal pubblico.