Alla Scala la versione in cinque atti per la regìa di Peter Stein e la bacchetta di Myung-Whun Chung
di Bianca De Mario foto © Brescia & Amisano
«È un’opera lunga, è vero; ma così deve essere», in questo modo Verdi difendeva il suo Don Carlo in una lettera del 1871, prima di apportare al dramma una serie di tagli e modifiche che lo ridussero a quattro atti. Della necessità di tale lunghezza è tuttavia fermamente convinto anche Alexander Pereira che, per il pubblico milanese, ha optato per quella versione italiana integrale in cinque atti, assente in Scala da ormai quarant’anni, quando fu proposta per l’ultima volta da Claudio Abbado e Luca Ronconi. Una sfida dunque, per il direttore Myung-Whun Chung e per il regista, il tedesco Peter Stein, che torna sul palco scaligero con la produzione realizzata per il Festival di Salisburgo 2013. E, a ben vedere, è una sfida anche per gli spettatori, alla loro percezione sullo scorrere del tempo – musicale, operistico e non solo. Un tema con cui il cartellone di quest’anno, tra riprese di prime versioni (dalla Butterfly del 1904 al Don Carlo modenese) e riproposizioni di produzioni ormai storiche (La traviata della Cavani, La bohème di Zeffirelli e Il ratto del serraglio di Strehler), ci costringe a fare i conti. Certo per assaporare i colori ed entrare nella struttura mosaiciforme di questo Don Carlo, quelle cinque ore sono un viaggio a tappe obbligato, ma, a giudicare dai palchetti abbandonati a partire dal terzo atto, un viaggio che è «per molti ma non per tutti» (come diceva un vecchio spot anni ’80).
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Eppure questi cinque atti suonano come un tempo necessario, prima di tutto nelle scelte stilistiche di Chung. Nel corso di quel primo atto recuperato, nella foresta di Fontainbleau, dove sboccia ed è immediatamente condannato l’amore tra l’Infante di Spagna, Don Carlo, ed Elisabetta di Valois, promessa al di lui padre, e per tutto il secondo atto, che suggella l’amicizia tra Don Carlo e Rodrigo e presenta l’autorità inopponibile di Filippo II, la direzione del maestro coreano sembra incerta tra una patina nebbiosa nei momenti più accorati e l’effetto fanfara delle pagine più gioiose. È però nel dipanarsi degli eventi che riescono a percepirsi nuove atmosfere, richiami, brillanti messe a fuoco tanto nelle sezioni di lirico intimismo quanto nei finali corali ad orchestra spiegata. Esemplari in questo senso i due quadri del terzo atto, prima nei giardini della regina, quando si consuma il terzetto tra Carlo, Rodrigo e la principessa d’Eboli, venuta a conoscenza del segreto ‘incestuoso’, poi nell’episodio dell’autodafé, in cui esplode il torbido aspetto dell’Inquisizione, solo sfiorato negli atti precedenti.
L’introduzione al IV atto, con lo struggente solo di violoncello, e il soliloquio in cui Filippo medita sulla sofferenza di un amore mai ricambiato («Ella giammai m’amò») sono forse la summa del capolavoro verdiano, in cui l’inconciliabilità tra dramma personale e ragione di stato è più viva. Ferruccio Furlanetto, a più riprese autorevole protagonista di questo ruolo, strappa l’applauso a scena aperta. La voce di Francesco Meli, nei panni di Carlo, raggiunge vette sempre più alte nelle arie da solista, ma sembra alquanto sommesso nei numeri d’insieme. La Stoyanova, già applauditissima Amelia nel Boccanegra proprio con Chung, è qui un’impeccabile Elisabetta, che dà il meglio di sé in «Tu che le vanità conoscesti del mondo» del quinto atto. L’addio del Rodrigo di Piazzola («O Carlo, ascolta, la madre t’aspetta», atto IV) – a tratti contestato – scuote il pubblico della prima. Colpisce il Grande Inquisitore di Eric Halfvarson, la cui vocalità prorompente gli vale a perdonare qualche piccola imprecisione, mentre l’Eboli di Ekaterina Semenchuk non sempre convince l’esigente pubblico scaligero. Il paggio Tebaldo della giovane Theresa Zisser colpisce infine per la sua voce cristallina e buona presenza scenica. I cori, protagonisti indiscussi del Don Carlo, offrono momenti di grande spessore drammatico, soprattutto nei fuori scena e nelle pagine a cappella.
Non è allora un caso se i momenti più suggestivi della regia di Peter Stein siano proprio quelli in cui il coro fa da padrone, gli inizi e i finali d’atto, in cui la scena, concepita spesso troppo staticamente, riesce ad essere dinamizzata. Le belle scene di Ferdinand Wögerbauer, i costumi sontuosi di Anna Maria Heinreich e le luci di Joachim Bart da sole non sono sufficienti a tenere in piedi uno spettacolo che richiede un’immersione continua e svela atmosfere inaspettate. Un finale di dongiovannesca memoria marchia la regia di Stein: risucchiato nel sepolcro di Carlo V, Don Carlo viene qui sottratto alla storia dal volto del suo stesso passato. «Solo del cor la guerra | in ciel si calmerà», un deus ex machina che getta un’ombra inquietante sul presente.
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