di Santi Calabrò
La straniera è una delle opere più scopertamente sperimentali di Vincenzo Bellini: soggetto, musica e drammaturgia sono investiti dal Romanticismo, il vento impetuoso che connota culturalmente e spiritualmente la gran parte dell’Ottocento europeo. Se pure la tensione drammatica non risulta alta in tutti i numeri dell’opera, la costante qualità del lirismo belliniano e molte parti riuscite sotto ogni profilo restituiscono nell’insieme un melodramma elegante e talora incantato. La produzione andata in scena al Teatro di Catania sarà ricordata per il debutto della nuova edizione critica dell’opera, a cura di Marco Uvietta, ma di certo resterà qualche memoria anche della regìa “acquatica” di Andrea Cigni.
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L’opera prevede realmente la presenza di un lago, nei pressi del quale abita la misteriosa Alaide, di cui Arturo – che dovrebbe sposare Isoletta – è follemente innamorato. Nello stesso lago cade il buon Valdeburgo, fratello di Alaide, a seguito dello scontro con Arturo che lo crede un rivale perché gli conferma la stessa cosa sostenuta dalla innamorata ma resistente Alaide, e cioè che il loro amore è impossibile per ragioni impronunciabili. Infine, dal lago riemerge Valdeburgo all’inizio del secondo atto, miracolosamente salvo e in tempo per salvare Alaide e Arturo, appena condannati proprio per la sua presunta morte. A Cigni, però, il lago in questi termini non basta: l’acqua è in scena dall’inizio alla fine! I cantanti la percorrono mentre recitano e cantano, e nella seconda parte dell’opera si gode anche dei riflessi acquatici proiettati su un grande specchio obliquo. Tutto ciò è tanto piacevole da vedere quanto poco necessario alla stessa regia di Cigni e, per di più, non privo di effetti collaterali.
Niente da eccepire sulla pertinenza del simbolismo acquatico: il lago è significante romantico e mortifero, come mortifera è la passione tra Arturo e Alaide, che è in realtà la regina Agnese, bandita dal trono perché Filippo II Augusto re di Francia per ordine del papa ha dovuto ripudiarla e sposare la principessa danese Isemberga. I punti di forza di questo allestimento, tuttavia, consistono in altro: nella chiarezza e sobrietà dei gesti e dei movimenti sia individuali che del coro, nelle scene di Dario Gessati – fra cui l’originale paesaggio lacustre sospeso in aria nel primo atto – tali da garantire una piena congruenza tra impianto atemporale e oggetti storicamente connotati, nella garbata misura delle proiezioni e delle luci di Fiammetta Baldisseri.
Quanto alle conseguenze collaterali, l’acqua non sarà stata incolpevole nelle indisposizioni e sostituzioni dei cantanti che hanno tormentato le varie repliche: è vero che i cantanti sguazzavano con alti stivali, ma gli spruzzi avranno ugualmente sortito un loro deleterio effetto. Forse poco attenta nel tutelare il cast sotto questo aspetto, la direzione artistica si è peraltro rivelata efficace nel selezionare delle voci adatte al lirismo belliniano, sia nel primo che nel secondo cast, e persino nell’urgenza di reperire altri artisti quando l’indisposizione (acquatica?) si è abbattuta su tutte le prescelte per interpretare Isoletta: Sonia Fortunato, convocata in extremis, alla prima ha cantato in buca mentre al suo posto agiva un mimo, poi ha preso confidenza con l’allestimento e si è ben disimpegnata anche in scena; vocalmente sostiene molto bene il ruolo, per bellezza del colore e appropriatezza di espressività accorata, adeguata al personaggio. Isoletta è infatti presaga dall’inizio del suo destino di abbandonata sull’altare; peggiore il destino di Arturo, che subito dopo averle inflitto la fatale umiliazione si suicida pubblicamente quando si rendono note sia l’identità di Alaide che la necessità per lei di tornare sul trono accanto al marito, essendo morta Isemberga.
In questo non facile ruolo tenorile senza arie – «paradigma di personaggio di relazione», come scrive Uvietta nel bel saggio di introduzione al libretto – canta bene Emanuele D’Aguanno, che trova una pregevole misura tra la levigata omogeneità dell’emissione e l’espressione del tormento psicologico del personaggio, continuamente sollecitato in un caleidoscopico, romantico passaggio dalla passione, alla rinunzia per dovere, alla speranza, all’autocommiserazione, all’ira, alla disperazione nell’ambito delle stesse scene (su tutte, il grandioso duetto con Alaide nel primo atto). Francesca Tiburzi è un’Alaide intensa e molto efficace nella conduzione del registro medio, mentre negli acuti è mancata talora l’incisività necessaria a dominare la parte e svettare nei concertati. Valdeburgo è interpretato daEnrico Marrucci, baritono elegante e intonato, e nei ruoli minori spicca Maurizio Muscolino, un autorevole priore degli Spedalieri. Diretta con slancio da Sebastiano Rolli, l’orchestra del Teatro Massimo Bellini non offre la sua prova migliore sotto l’aspetto della concertazione e del controllo delle dinamiche, a volte eccessive; bene nel complesso il coro, diretto da Ross Craigmile e abbigliato in modo vistoso dal costumista Tommaso Lagattola. Pubblico entusiasta e capace a volte di sovrastare buca e palco con una salve ininterrotta di colpi di tosse: che siano tutti transitati preventivamente sull’acqua?
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