di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
L’allestimento è quello pluripremiato e pluricitato di Giorgio Strehler con le scene e i costumi di Luciano Damiani, ora ripreso da Mattia Testi, varato a Salisburgo nel 1965 e poi approdato alla Scala nel 1972, 1978 e 1994. Il direttore è Zubin Mehta, che dell’originale salisburghese (e di alcune sue repliche in loco) fu il responsabile. E soprattutto la musica è quella di un ventiseienne genio che qui getta i semi per gran parte della sua ancora più celebrata produzione teatrale degli anni successivi. È un miracolo di freschezza e di inventiva, l’Entführung aus dem Serail, che al pari dell’Idomeneo ci lascia probabilmente intravedere il Mozart più entusiasta e aperto verso il domani, che con animo incorrotto commenta in musica le vicende di un improbabile Pascià (che “considera la libertà al di sopra di ogni cosa”) in una ancora più improbabile Turchia tollerante e saggia, che lascia liberare i prigionieri conquistati dai corsari nel nome di un amore profondo tra i protagonisti Konstanze e Belmonte. Le torture, gli impalamenti, i roghi sono appena accennati, quasi per burla, da quel simpaticone di Osmin, il guardiano del serraglio, ma a trionfare è la saggezza illuministica del despota, che tanto despota non appare e che è stato qui interpretato – come ruolo recitato, s’intende – da uno straordinario Cornelius Obonya. Della regìa di Strehler si notano oggi alcuni aspetti parodistici che forse potranno disturbare i cultori di un nuovo tipo di teatro. Tuttavia Strehler ci sembrò qui (e ci sembra tuttora) meno invasivo rispetto alla sua lettura delle Nozze di Figaro e del Don Giovanni, mentre Damiani illumina con il gioco delle silhouettes i sentimenti apparentemente stilizzati dei personaggi di un’epoca lontana.
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Quando si riascolta una musica che si crede di conoscere a sufficienza, nel momento in cui l’attenzione viene catturata da alcuni particolari un tempo ignorati si rischia di avere come dei trasalimenti. Quante e quali anticipazioni ci sono nel Ratto, quante situazioni che vanno poi a confluire sia nella trilogia dapontiana che nella Zauberflöte! Belmonte è all’inizio dell’opera una sorta di Tamino che approda in un luogo misterioso e lontano; Osmin anticipa la figura di Monostatos nel suo ruolo di protettore e a suo modo innamorato di Blonde; l’aria in “minore” di Konstanze prelude senza dubbio all’analogo exploit di Pamina. E il quartetto dell’atto secondo ha già il tenero e accorato andamento dell’analogo luogo nel Fidelio.
Zubin Mehta ha avuto la sensibilità di non appesantire i tempi del Singspiel, ritrovando la freschezza e l’inventiva di ben cinquantadue anni fa, con una sicurezza di gesto e di controllo del palcoscenico che gli derivano da cotanta frequentazione del capolavoro mozartiano. Il Belmonte di Mauro Peter eredita tutta una tradizione di tenori tedeschi che va da Wunderlich a Schreier: Peter ha affrontato con sicurezza stilistica il proprio ruolo, rischiando tuttavia di sconfinare in una caratterizzazione “alla don Ottavio” che non esaurisce certo del tutto le potenzialità del personaggio. Star della serata è sotto tutti gli aspetti apparsa Lenneke Ruiten nelle vesti di Konstanze. Cantante dai mezzi notevoli per affrontare le temibilissime agilità e tessiture acute richieste dal ruolo, la Ruiten ha riscosso un successo unanime soprattutto (ma non solamente) nella sua grande aria, che si potrebbe riguardare tout-court come una delle arie da concerto più belle in assoluto di tutto il repertorio. E poi, anche nel caso di “Martern aller Arten”, l’ascolto in teatro, preceduto dalle ultime parole minacciose del Pascià, produceva un effetto tutto particolare e più impressionante di quanto non faccia l’estratto pur ascoltato in disco da voci entrate nel mito, un po’ come la famosissima aria della pucciniana Lauretta si rivela assai più interessante se collegata alla precedente perorazione di Schicchi.
Di notevoli qualità attoriali, ma non vocali, è parso l’Osmin di Tobias Kehrer, che mancava spesso di note gravi e sopperiva a queste lacune tramite un’espressività fin troppo gesticolante, del resto voluta nelle intenzioni del regista. Fin dalla sua aria di entrata, accolta dai sinceri applausi del pubblico, Sabine Devieilhe ha svelato nel ruolo di Blonde (o Biondina, come si usava nelle traduzioni italiane di un tempo) tutte le sue qualità di vocalista dalle doti non comuni. Doti alle quali si sono aggiunte quelle di attrice consumata nel suo perpetuo battibecco con un Osmin che apparentemente avrebbe dovuto alquanto sovrastarla. Apprezzato dal pubblico è stato anche il Pedrillo di Maximilian Schmitt, che a volte leporelleggiava (non a torto) nella sua caratterizzazione del servo-giardiniere del Pascià. Grande successo per una serata che conferma, se non la presenza incancellabile di questo fortunato allestimento, la necessità di ascoltare più spesso un’opera per molti versi unica nel grande repertorio.
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