Il nuovo allestimento scenico sembra essere un passo falso, ma eccelle la concertazione di Mariotti e su tutte si ammirano le voci di Pop, Iniesta, Chung e Alberghini
di Francesco Lora foto © Rocco Casaluci
La Lucia di Lammermoor di Donizetti mancava al Teatro Comunale di Bologna da nove anni; per otto recite dal 16 al 25 giugno vi è appena tornata con il passo falso di un nuovo allestimento: regìa di Lorenzo Mariani, scene di Maurizio Balò, costumi di Sylvia Aymonino e luci di Linus Fellbom; tutti gratificati di una scheda biografica nel programma di sala – privilegio negato ai cantanti, a dimostrazione di chi oggi comanda – e tutti manchevoli nei rispettivi ruoli e scopi. Trasposizione al primo Novecento senza che se ne colga il vantaggio, e anzi liquidando le suggestioni di un Settecento brumoso visto con gli occhi del Romanticismo; luci fredde sugli spazi chiusi e tempestosi fondali video, a evocare una Scozia postromantica in bianco e nero, con qualche intoppo tecnico ancora alla terza recita; la protagonista che non si cambia mai dell’abitino borghese pur attraverso un’azione lunga mesi interi e con in mezzo il suo matrimonio; i nobili parenti degli Asthon che si presentano alle nozze con indosso kilt tutti uguali e tutti riferibili a un clan differente da quello di Enrico; l’abbandono degli attori alla loro personale e perigliosa iniziativa – nel Finale II/1 Edgardo se ne va sbattendo la porta, ma non donde era venuto, bensì inforcando la parte più interna del castello – mentre il regista insegue controscene che vorrebbero suscitare orrore e sdegno, scatenando invece una diffusa ridarola in platea: Enrico che per certificare la propria vilanie canta la cabaletta e intanto decapita un cervo testé cacciato; lo stesso che tenta la violenza sessuale su Lucia ma è fermato dalla rivoltella puntatagli contro da Raimondo; Edgardo che intona lo struggente rondò finale mentre un pupazzo impiccato gli penzola sulla testa: dovrebbe essere Lucia, a dispetto dell’affido di lei fatto alle zelanti cure di Alisa e Raimondo, e a dispetto dello spietato gioco teatrale che la vuol negata alla vista dell’amato.
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La novità della produzione sta piuttosto in Michele Mariotti, debuttante nel capolavoro donizettiano. Lo si saggia nell’amorevolezza con la quale strappa dettagli e sostanze musicali alla sciatteria della tradizione, per rivelarne la giusta e trascinante enunciazione agogica e dinamica, e per spolverarne dimenticate prospettive timbriche e cariche emotive. Culmine è forse il rondò finale, avviato da una scena ove l’accompagnamento orchestrale si fa mobile, plastico, imprevedibile, magnifico nello srotolamento melodico, gioco d’onda e risacca come il mare, impetuoso e tormentato di vero spirito romantico. È dimostrata la tesi del Donizetti maestro di strumentazione e impianto formale; e spiace l’esecuzione quasi integrale, là dove a scongiurare l’avverbio sarebbe bastato lasciare al posto suo una manciata di battute, non più di tre minuti di musica in totale. Cade – il caso meno grave – il recitativo dopo la “scena della pazzia”, luogo di reazione attonita e d’assestamento psicologico tra i presenti; cade la pur breve ripetizione di un frammento della coda nella prima cabaletta di Lucia, quella che di solito è falciata di netto e che sarebbe parso un sogno ascoltare intera; cade un ben più lungo tramezzo nella monumentale stretta del Finale II/1, la quale ha tutto il vantaggio di rimanere intatta onde non sembrare sproporzionata con la pomposa scena che l’ha messa in moto e che in essa deve giungere a trasfigurazione: poco importa se questo stesso taglio – che è tale e infelice – sia entrato presto nella tradizione, e se l’autore in persona l’abbia ratificato nell’adattamento parigino dell’opera (l’alleviamento esecutivo corrispondeva anche al minor rango del Théâtre de la Renaissance, non certo all’altezza del San Carlo di Napoli). Spiace: poiché, se nemmeno un Mariotti si mette di traverso di fronte alle cattive abitudini, in chi si potrà confidare per l’integrità testuale di questo repertorio?
Scritture deboli nella prima compagnia di canto. Irina Lungu ha tipica voce slava: omogenea, coperta e smaltata; nell’approccio all’Ottocento italiano le converrebbe tralasciare le eroine di Bellini e Donizetti, che sottintendono altra enfasi di fraseggio, altra sicurezza d’estensione, altro scarto di registri e altra energia di vocalizzazione. La sua pur impegnata Lucia risulta così tutta giocata sulla difensiva, là dove andrebbero ostentate dovizia di mezzi e padronanza di stile. Delude anche l’esperimento di Markus Werba come Enrico: fuori dal repertorio tedesco, l’artista di acclarata intelligenza vede restringersi la gamma di colori, e per calcato impeto scenico qui e là forza e si affatica. Subentrato a Celso Albelo, il tenore Stefan Pop scopre d’essere il re della festa. Lo è davvero, per sbalorditiva facilità di tenuta nell’alta tessitura, per genuinità di timbro anche su sostrato fibroso, per generosità di volume e per efficacia di fraseggio; ha un solo difetto: tanto gongola di autocompiacimento da offuscare con la simpatica piacioneria dell’interprete l’aristocratica introversione di Edgardo. Qualità naturali copiose ma emissione ingolata nel Raimondo di Evgeny Stavinsky. E consolazioni in abbondanza nella seconda compagnia. Come la Lungu, anche Ruth Iniesta non ha un profilo vocale che evochi subito il personaggio di Lucia attraverso le sue più celebri interpreti: meglio le si attaglierebbe un carattere brillante. Ma a testa bassa costruisce una psicologia ferita e adolescenziale, mette a punto sfumature con semplice eleganza e vola squillante alle puntature nel registro sopracuto. Le è accanto l’Edgardo di Ho Yoon Chung, meno istintivo e trascinante di Pop ma più ferrato nella tecnica. Preferibile, infine, anche l’Enrico di Simone Alberghini: già esperto della parte di Raimondo, dimostra ora come questa parte data ai baritoni suoni più salda e varia in bocca a un basso cantante.
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