di Attilio Piovano foto © Ramella & Giannese
Gran successo al Regio di Torino e una trionfale chiusura di stagione con un allestimento del verdiano Macbeth di forte impatto visivo e, più ancora, di notevolissimo ‘spessore’ musicale. Grazie alla direzione ipercalorica ed energetica di Gianandrea Noseda che, perfettamente a suo agio in tale repertorio, ha impresso ritmi aitanti senza mai far venir meno la tensione: sbozzando per grandi pennellate e con vigorosi accenti, ma anche soffermandosi sui lati intimisti che pure non mancano in quest’opera complessa e multiforme, tragica e cupa, dove pure non mancano passaggi balzellanti in apparente contraddizione col testo (momenti di forte pathos nel terzo e quarto atto, culminanti in quel fantasmatico fugato che in anticipo di anni luce rispetto all’epoca di composizione, apre squarci sul ’900). Noseda ha saputo dare coerenza al tutto, scegliendo intenzionalmente la versione del 1865, ma – controcorrente – recuperando il finale del 1847, dunque con la morte in scena di Macbeth. Scelta condivisibile anche se non tutti l’hanno accettata appieno. Noseda ha potuto contare su un’orchestra estremamente reattiva, davvero in gran forma sulla quale egli ha di certo compiuto un accurato lavoro in sede di prove e concertazione. E lo si è constatato con piacere la sera della prima, mercoledì 21 giugno 2017. Tanti dettagli timbrici, perfettamente messi a fuoco, molte vibranti frasi, mai affidate al semplice fragore, ma sempre frutto di un calibrato dosaggio coloristico e via elencando. Ottimo l’apporto del coro, come sempre istruito da Claudio Fenoglio.
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Nel cast Anna Pirozzi ha giganteggiato vocalmente (nonostante qualche passaggio di registro non ben calibrato) nel ruolo inquietante della perfida Lady Macbeth. Forse l’avremmo voluta scenicamente ancora più impressive, come dicono gli anglosassoni, qualche bagliori luciferini nella scena del banchetto, come era stato nell’ultima edizione vista al Regio, quella del 2002 con Sylvie Valayre. Le ha ben tenuto testa Dalibor Jenis, assai convincente nella scena delle visioni nella scena III dell’Atto II, laddove vede il fantasma di Banco (ben coadiuvato dai repentini cambi di luce dovute all’ottimo Cristian Zucaro), luci che si fanno improvvisamente livide, quasi a visualizzare le improvvise allucinazioni del protagonista abile a rendere i tormenti e le angosce del generale attanagliato dai rimorsi, dal fato e da ultimo dalla follia. Ben allineati su elevati standard il generale Banco sbozzato da Vitalij Kowaljow ed il Macduff di Piero Pretti. Tra gli altri un plauso speciale per la dama di Lady Macbeth disimpegnata con eleganza e autorevolezza da Alexandra Zabala e una sottolineatura più che positiva per le voci bianche di Francesca Idini e Anita Maiocco.
Il versante scenico è per l’appunto di notevole impatto. Si tratta dell’allestimento in co-produzione col Massimo di Palermo e Sferisterio di Macerata con la regia di Emma Dante e le truci scene di Carmine Maringola (funzionali i costumi in sintonia col tutto di Vanessa Sannino e così pure le animate coreografie di Manuela Lo Sicco grazie ad una compagnia di mimi di prim’ordine, da restare col fiato sospeso). Emma Dante è una che sa quello che fa e conseguentemente ha concepito uno spettacolo coerente e di fatto unitario.
Macbeth, si perdoni l’ovvia annotazione, è opera invero difficile da mettere in scena, popolata di streghe ed armigeri, punteggiata di delitti efferati, personaggi torvi, vendette e rimorsi, sete di potere, in una Scozia dilaniata dalle guerre. Le onnipresenti streghe di Emma Dante sono agitatissime e sciamannate. Delineano un mondo impregnato di eros e thanatos. Partoriscono bambolotti e si insinuano con pregnante carnalità in ogni dove; c’è spazio per caldaie di rame e croci a led, una regia talora sovraccarica, certo iperconcettuale e fitta di troppe idee, con alcuni momenti di notevole resa emotiva («Patria oppressa» con quei cadaveri in primo piano ad evidenziare un gusto necrofilo in sintonia col tutto), l’enorme telo che macchiato di sangue forse pare da connettersi ai riti della deflorazione, tipicamente meridionali a coprire i plurimi e stravaganti amplessi delle streghe e i loro sabba orgiastici, ma anche quella nuvola come verginale a racchiudere tre nudi, la movimentazione di letti come di ospedale, bianche e fantasmatiche presenze, ma anche con cose più discutibili attinte alla carnalità paganeggiante di una Sicilia barocca. I trionfi della morte e certe citazioni pittoriche – lo scheletro equino che domina inizialmente rimandando ad un celebre affresco palermitano – che hanno reso il tutto fascinoso e inquietante, talora farraginoso e ipertrofico (con qualche stranezza come le ragazze in tutù per l’apparizione regale e che parevano uscite dal «Lago dei cigni»). Si poteva evitare quel Cristo morto al limite del blasfemo e un po’ fine a se stesso e così pure la foresta che avanza in guisa di fichi d’india, come di sfondo paesaggistico dall’ovvia provenienza mediterranea. Detto questo è uno spettacolo del quale si conserverà a lungo memoria, sia per il versante musicale, più ancora per quello visivo.
Applausi sentiti all’intero cast, a Noseda, all’orchestra, al coro ed al versante visivo dello spettacolo in cartellone sino ai primi di luglio.
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