di Alberto Bosco foto © Javier del Real
A giudicare da quanto scritto nelle note di sala che accompagnano questa interessante nuova produzione del Gallo d’oro al Teatro Real di Madrid, ci si sarebbe aspettati un allestimento corrosivo e dissacrante, tutto incentrato sugli aspetti satirici del libretto di quella che fu l’ultima opera scritta da Rimskij-Korsakov. Infatti, dalla lettura del programma si apprende che il compositore, traumatizzato e indignato di fronte alla scellerata guerra contro il Giappone e la repressione cruenta dei moti del 1905, avrebbe in quest’opera voltato le spalle al suo passato, rinnegando un’intera carriera dedicata ai temi della Russia zarista e del folclore nazionale, decidendo quindi di mettere in musica una fiaba di Puškin al cui centro è la figura di uno zar incapace e pigro, e di dotarla di una musica grottesca che metterebbe apertamente in ridicolo le formule, gli stili e le convenzioni tipiche dell’opera russa del secolo precedente – Rimskij-Korsakov incluso. Con questa conversione tardiva a un disincantato radicalismo, il vecchio compositore avrebbe scritto un’opera completamente proiettata verso il Novecento e, nel suo formalismo, capace di anticipare il teatro dell’assurdo e le sferzanti provocazioni del teatro di Prokof’ev e di Šostakovič.
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Sono tesi suggestive, forse un po’ estremiste, che mettono giustamente in luce il carattere atipico di quest’opera, ma ne riducono l’essenza in modo troppo unilaterale. Infatti il regista Laurent Pelly si guarda bene dall’accoglierle in pieno, mantenendo il suo spettacolo in un’ambiguità di fondo che tutto sommato non si adatta male all’opera. Bravissimo nel rendere gli aspetti tragicomici della vicenda, trascura però i riferimenti esotici, nazionalistici e autenticamente fiabeschi presenti nella musica, per accogliere invece le suggestioni da pamphlet politico presenti nel libretto: per cui la morte dello zar, beccato sulla testa dal gallo d’oro del mago, è accompagnata dall’improvviso cadere del telone sullo sfondo, simboleggiando la crudele fine del sogno della monarchia russa con l’apparizione in scena di masse di affamati senza una guida. La sensazione di tramonto di un’epoca è accresciuta anche dal carattere spoglio e plumbeo delle scene, ridotte a pochi elementi appoggiati su una brulla terra nera: un lettone, da cui lo zar non esce quasi mai, e la tenda della zarina di Šemacha, trasformata in una gigantesca coda di scorpione fatta di anelli concentrici.
La direzione di Bolton, invece, sembrava voler dare ragione al programma di sala, rifuggendo da slanci e abbandoni, e mantenendosi in un andamento oggettivo e impassibile che ha messo in risalto il lato novecentesco di questa partitura, che commenta senza troppo scaldarsi le sgangherate avventure dello zar incapace. In questo distacco è certamente una chiave della comicità di quest’opera, ma l’assenza di un’altimetria drammaturgica, per cui tutta la musica si dipana con rotanti progressioni che non mostrano il minimo turbamento, può spiegare la sensazione di noia e di prevedibilità che ogni tanto faceva capolino. Un altro aspetto che Bolton ha messo in risalto è l’asciuttezza della strumentazione, questa sì veramente moderna. Forse ci sarebbe stato un po’ di margine per una maggiore sensualità, una maggiore elasticità ritmica e cura di eleganti particolari, in particolare nel second’atto, ma nel complesso la lettura musicale è stata molto coerente e ha fornito un sicuro appoggio ai bravissimi cantanti, tra i quali vanno menzionati i due protagonisti: Dimitry Ulianov, lo zar Dodon, e Venera Gimadieva, la zarina di Šemacha.
Resta da chiedersi, quale sia la vera natura di quest’opera. Il sospetto è che rinunciare alla sua forma fiabesca, calcare troppo la mano sui suoi lati proiettati al futuro o su un suo presunto carattere provocatorio, possa snaturarne la poesia – del resto, quando Diaghilev nel 1914 la propose per la prima volta in occidente, in un allestimento straniante con ballerini in scena e cantanti in orchestra che tanto dovette ispirare Stravinsky, si attirò le ire della vedova del compositore. Certamente il libretto di Belskij ha toni fortemente polemici, ma non si saprebbe trovarne un’eco equivalente nella musica, che è tutt’altro che graffiante e distorta, a meno che non si vogliano sopravvalutare gli aspetti parodici che pur ci sono, ma che sono da sempre tipici del genere farsesco (da Rossini a Offenbach, ecc.). Infatti Rimsky-Korsakov era sì un aristocratico di idee liberali, e se pure partecipò, pagandone le conseguenze in prima persona, ai movimenti di apertura democratica del suo paese, non fu un rivoluzionario né un populista: sentendo avvicinarsi la rivoluzione e a volte anche augurandosela, confidava nelle sue memorie di non volerla vedere in vita, così da poter godere ancora un po’ della pace e della cultura, a lui indispensabili per lavorare.
In fondo anche il carattere parodistico, inequivocabile in certi tratti della musica del Gallo d’oro, è da leggere come uno sguardo retrospettivo, mezzo ironico, mezzo affettuoso, su un mondo musicale arrivato al capolinea, quel mondo inaugurato da Glinka, di cui Rimskij, nonostante le sue nevrotiche incertezze, fu lungo tutto il secolo uno dei pilastri. Difficile credere che il compositore che giusto prima di incominciare a comporre la sua ultima opera, si sentì in dovere di completare l’orchestrazione del Boris , del Matrimonio e di altre musiche immortali del suo amico Musorgskij, volesse poi sputare sul suo passato e quello dei suoi compagni di strada. L’ambiguità comunque permane ed è da mettere in relazione con il cambio epocale che in Russia come nel resto dell’Europa stava mandando in pensione l’Ottocento e i suoi miti. Per trovare un caso simile si può guardare al Falstaff di Verdi, un’altra opera in cui un grande e prolifico protagonista del teatro musicale si congeda da se stesso, filtrando il mondo fantastico del suo passato attraverso la lente dell’autoironia, dando allo stesso tempo alle generazioni più giovani spunti per intraprendere nuove strade.
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