di Francesco Lora foto © Yasuko Kageyama / Teatro dell’Opera di Roma
La nuova stagione lirica del Teatro dell’Opera di Roma si è inaugurata – sei recite dal 12 al 23 dicembre – con un titolo che in senso proprio opera non è. La damnation de Faust di Hector Berlioz è infatti una légende dramatique, ossia una composizione con una storia, un libretto e una drammaturgia, ma destinata alla sola esecuzione concertistica anziché scenica: una sorta di oratorio laico basato sul mito di Goethe; un lavoro intento più alla psicologia che all’azione; una partitura la cui sensazionale forza evocativa procede di pari passo con lo svincolo dalle convenzioni di genere e dalle condizioni scenotecniche. La sua esecuzione con regìa, scene e costumi rimonta tuttavia già alla fine dell’Ottocento, ed è naturale che il suo visionario testo invogli oggi più che mai all’allestimento scenico. A Roma la regìa è stata affidata a Damiano Michieletto, fenomeno teatrale alla moda che, in quanto tale, relega fuori dal trendy la critica di segno contrario. La sua ovvia condicio sine qua non è scardinare la drammaturgia così come codificata dagli autori: può starci, a patto che dalla rilettura esca un approfondimento rivelatorio su quello stesso testo. Ma la cosa non avviene: ed ecco, dal punto di vista di chi scrive, il perché.
Nella Damnation de Faust tutto concorre affinché l’ascoltatore si immedesimi di volta in volta con la languorosa, nostalgica, tracotante vena romantica di Faust, con l’innocenza di Marguerite mercificata da Méphistophélès nonché con la sarcastica e sfuggente essenza ingannatrice di quest’ultimo; una macchina teatrale attraente e inclusiva. Michieletto trasforma invece Faust in uno studente bullizzato e in cura psichiatrica, attivamente assistito dall’impotente Marguerite e fatalmente plagiato dalla figura diabolica: in tal modo la storia universale diviene però storia particolare, e anziché insegnare a riconoscere, dominare e sfogare i propri affetti, finisce soltanto con l’aprire uno squarcio compassionevole su una questione familiare senza eroismo, senza grandezza, senza lascito etico, senza forza di attrazione verso i suoi oggetti. Va da sé che numerose immagini dello spettacolo romano si fissino nella mente: ma ciò è merito soprattutto di uno scenografo e di una costumista geniali come Paolo Fantin e Carla Teti (memorabile, nella parte III, il fasullo paradiso terrestre suscitato dall’inferno per la coppia amante: bellezze del creato dipinte su sagome e diavolo che si aggira con coda serpentina).
Un altro favore al regista viene da una compagnia di canto pronta a corrispondergli, nell’infaticabile scioltezza attoriale, ben più di ciò che libretto e partitura implicherebbero. Il basso Alex Esposito, in particolare, si erge a mattatore assoluto più con l’esuberante presenza scenica che con lo scavo oggettivo di parola e musica: al suo debutto nella parte egli dà luogo a un Méphistophélès deliberatamente caustico, materico e abrasivo, aperto a blande sfumature soltanto per irridere, atteso al capolavoro quando vorrà sostituire all’idea di un regista il vero idiomatismo stilistico francese.
Il tenore Pavel Černoch, all’opposto, si trova precluso il Faust degli slanci per calarsi nei panni di un disagiato: ciò non toglie l’apprezzamento al suo pur strano canto di scuola slava, ove un timbro luminoso riesce a farsi largo attraverso l’emissione ingolata. Preparatissima Veronica Simeoni, benché il suo passaggio da un capo all’altro del repertorio non lasci tuttora ben comprendere quale sia quello d’elezione: in Marguerite il sollecitato registro centrale suona saldo ma di timbro comune, mentre l’ascesa oltre il rigo comporta tensioni di sapore più tragico che elegiaco.
La concertazione spetta a Daniele Gatti, che appoggia il coro e conduce l’orchestra del Teatro dell’Opera con l’usuale devozione al suono pieno, oscuro, turgido, poderoso, impastato, assorbente, e con minor interesse verso l’esplosivo e smaliziato obiettivo retorico dell’orchestrazione berlioziana; in più di un luogo si ha l’impressione che anch’egli ceda terreno all’invadenza registica, senza preservare per sé e per le maestranze romane nemmeno gli intermedi sinfonici: la Marche hongroise, con le quartine di crome tirate via e arruffate alla penultima recita, basta a mostrarlo.
Michieletto ohimé ci riprova (e ciononostante è sulla cresta dell’onda..)! Provate a ricordarvi il Ratto dal Serraglio del Comunale di Bologna (ISIS…) oppure quello della Deutsche Oper del 2016), pensate alla Carmen di Firenze (ribellione al femminicidio) e considerate il Don Giovanni della Staatsoper. Sono solo alcuni (pochissimi..) esempi di come oggi i registi (la maggioranza, non tutti) ritengano i libretti solo una sorta di fonte di generica ispirazione da cui trarre vicende che poco o nulla hanno a che fare con il libretto stesso. Pensate ora se la stessa cosa fosse fatta con la musica delle opere strapazzate: che razza di pasticcio verrebbe fuori? Personalmente non ho dubbi: i libretti (come i testi teatrali) possono certamente essere oggetto di rivisitazioni ma purché rimanga intatta la volontà del librettista (dello scrittore), purché il significato del testo non sia stravolto, purché lo sviluppo dell’azione risponda alla volontà dell’autore e soprattutto purché lo spettacolo sia bello. Cosa direbbe oggi Prosper Meriméè di una Carmen che si ribella e uccide Don José? Non avrebbe tutti i diritti di rivendicare lo spirito della sua novella, che – sia detto per inciso – non ha di certo bisogno di stravolgimenti che ne scalfiscano la eccezionale qualità? Ma torno alla domanda iniziale: se si può stravolgere il testo perché non si può stravolgere anche la musica? Ricordiamoci (seppure in altro contesto) della famosa affermazione di Heine “Dort wo man Bücher verbrennt, verbrennt man am Ende auch Menschen”. Fatti i debiti paralleli..