Per festeggiare i cinquant’anni di carriera, il baritono torna al Teatro Regio in apertura di Stagione 2018 a interpretare uno dei ruoli più amati nello storico allestimento di Pier Luigi Samaritan
di Francesco Lora foto © Roberto Ricci
Non più una mera concentrazione di spettacoli, valorosi ma ordinari, intorno al Cigno di Busseto: nell’edizione autunnale del 2017 il Festival Verdi, gemma del Teatro Regio di Parma, ha sfoggiato un assetto più che mai degno delle promesse. Attraverso i quattro titoli lirici in cartellone e il corollario di concerti ha cioè dimostrato di tenere saldamente un esteso discorso plurifocale sul massimo operista italiano, mediato da artisti di levatura internazionale e inquadrato di volta in volta secondo tradizione e filologia, erudizione ed emozione, novità e riconferma: una dimostrazione panoramica e perentoria della poetica di Giuseppe Verdi e del suo ruolo nell’attualità globale.
A distanza di una stagione, la mente del melomane come del musicologo trova ancora un riferimento nell’imponente e rarissima Jérusalem andata in scena al Regio dal 28 settembre al 20 ottobre. Concertazione impegnatissima di Daniele Callegari, meritevole di aver diretto fino all’ultima nota anche gli sterminati “numeri” di balletto nell’atto III; regìa, scene e costumi di Hugo De Ana, ecletticamente confusi tra più epoche e stili ma improntati a uno sfarzo visivo oggi alla portata di ben pochi teatri; compagnia di canto capace di una superba lezione stilistica circa l’infranciosamento grandoperistico verdiano, in particolare attraverso la risoluta eleganza di Annick Massis come Hélène, il porgere fragrante di Ramón Vargas come Gaston e la forma titanica di Michele Pertusi come Roger (insolenza estensiva, smalto riportato a nuovo, fraseggio chirurgico).
Di orizzonte antitetico lo Stiffelio allestito dal 30 settembre al 21 ottobre nel Teatro Farnese. In quello spazio anomalo Graham Vick (regìa), Marco Tinti (scene e costumi), Giuseppe Di Iorio (luci) e Ron Howell (coreografie) hanno concepito uno spettacolo a sua volta fuori dagli schemi, da non ripetere poiché unico per natura, capace di far giganteggiare con la trasposizione a un’attuale stolida battaglia ideologica la drammaturgia di scandalo e perdono esaltata da Verdi ma poi frenata dalla censura. L’entusiasmo registico ha imposto agli interpreti uno sforzo inusitato, ma ha anche moltiplicato i meriti di Luciano Ganci come protagonista, Maria Katzarava come Lina e Francesco Landolfi come Stankar: ciascuno ha impresso un ricordo artistico come mai prima con altrettanta forza. Eroico Guillermo García Calvo nel tenere le redini dell’orchestra nonché di cantanti e coro sparsi tra il pubblico.
Una terza via teatrale è balenata infine nel Falstaff ancora al Regio dal 1° al 22 ottobre. L’arte del fare commedia si è imposta alla pari nella sorniona lettura musicale di Riccardo Frizza, nella regìa vivacissima, scorrevole, chiara e mai caricaturale di Jacopo Spirei, nelle scene virtuosisticamente sghembe di Nikolaus Webern e nei costumi idiomaticamente all’inglese di Silvia Aymonino. Quanto ai cantanti, la complicità attoriale è stata tale che la somma dei pregi ha ecceduto la somma di quelli individuali, facendo sembrare ovvie qualità canore non poi così comuni: sugli scudi in particolare il protagonista di Roberto Candia, evidente allievo di Sesto Bruscantini; il Ford di Giorgio Caoduro, capace di un complementare vocabolario baritonale; l’efebico Fenton di Juan Francisco Gatell e la delicata Nannetta di Damiana Mizzi.
Far memoria di una rassegna andata a segno, e capace di lasciare un esempio dietro di sé, è tanto più motivato in concomitanza del Rigoletto attualmente in scena come spettacolo inaugurale della stagione lirica 2018: sei recite dal 12 al 21 gennaio. Da sempre la stagione parmigiana affianca almeno un altro titolo verdiano a quelli presentati nel Festival, e più di una volta è sembrata aggiungere all’esubero un’appendice di poco carattere e nessuna urgenza. Riformulato il Festival Verdi, il Rigoletto in questione gli si pone invece di fronte con una dialettica sapida, integrativa, la quale vale a significare non tanto la mania degli autoctoni intorno al genius loci quanto la lanterna verdiana sempre viva tra la preziosa rassegna passata e quella attesa nell’autunno prossimo. Vistosa una frattura: non si tratta qui di un nuovo allestimento scenico, ma dell’ennesima ripresa del vetusto spettacolo con regìa, scene e costumi di Pier Luigi Samaritani, devotamente ripreso da Elisabetta Brusa. Uno spettacolo arcitradizionale.
Ed ecco accodato al Festival proprio ciò che là era mancato, e che invece dev’essere l’anima di un teatro per la propria città: una lettura del testo – parole e musica – inteso in quanto tale, senza che tra l’autore e il pubblico si allunghi, con decisivi sbilanciamenti esegetici, l’estro cervellotico dell’interprete. Della visione di Samaritani rimane oggi in dote preziosa soprattutto la semplicità dei suoi vuoti. Si allude un poco anche al brancolare di Rigoletto e Sparafucile su una scena buia, deserta, fitta soltanto di nebbia padana: un capolavoro dell’immagine teatrale cui fa da contraltare sbalorditivo la dissoluzione della stanza di Gilda sulle ultime note della romanza amorosa, e la sua immediata ricomparsa con visione dall’esterno e con la donna alla finestra ammirata dai rapitori. Ma si allude in particolare allo spazio lasciato agli attori e che, quando non colmato da una loro connotata intenzione, rimane testo aperto, spesso tanto più enigmatico e lancinante.
Si pensi proprio alla Gilda di Jessica Nuccio, che è soprano di solida professione e artigiana abnegazione anziché primadonna onnipotente e parafulmine di sottotesti. Mille regìe hanno indagato il personaggio che evolve da bimba a donna, e che infine si consacra con vero eroismo alla salvezza dell’amato; nel canto e nel gesto, qui si conosce invece l’adolescente monotona e insicura, religiosamente educata al modello di sante martiri, che con folle inesperienza si sacrifica per la persona sbagliata: la maledizione su Rigoletto avrebbe potuto tradursi in modo più teatralmente, umanamente, inutilmente terribile? A riconfermare la crudezza di uno spettacolo sgravato dallo horror vacui concettuale è a sua volta il Duca di Mantova impersonato da Stefan Pop: il tenore pavarotteggia con timbro accattivante, risonanza generosa, acuti che schioccano sicuri senza troppo curarsi di un’emissione fibrosetta; e in questo compiacimento prende insieme forma, sfuggente e noncurante, l’uomo che usa la donna, l’egoista, il ridicolizzatore della dignità: per la seconda volta, la giustezza del ritratto è assicurata più dall’aver lasciato in stato d’abbozzo che dall’aver promosso con troppa analisi una psicologia di ignobile orizzonte.
A presiedere questa lettura fatta più di dura verità che di studiate sfumature è Leo Nucci: cinquant’anni di carriera e smalto da vendere, La bemolle acuto tuttora ostentato con fierezza, qualche affanno nel legato e fiati un poco accorciati, protagonista costruito viepiù nel verso e nel gesto oltre che nel canto. A maggior ragione ora che gli anni iniziano a pesare su una longevità vocale incredibile, Rigoletto è parte sua come di nessun altro, ed è egli più che mai oggi ad arbitrare quale ne sia la miglior via interpretativa. Beninteso, ciò vale anche nello spettacolo parmigiano: il baritono vi mette a punto un vocabolario di moderna asciuttezza, in vista di un personaggio vile eppur affettuoso, secco e brusco nel mostrare la propria scorza ma con la complessità segreta dell’uomo straziato. Nel resto della compagnia, eccelle il caratterismo dei due bassi: il lussuoso Giacomo Prestia come Sparafucile e l’imperioso Carlo Cigni come Conte di Monterone.
A tutti il concertatore Francesco Ivan Ciampa concede popolare licenza di variazioni e cadenze, oltre che – al tenore – lo sgravio dalla ripresa della cabaletta. Nel dirigere l’Orchestra dell’Opera Italiana sembrerebbe, in un primo tempo, accondiscendere a tempi comodi e fraseggi di convenzione: ma a partire dall’inedito, gelido sussurro del coro nell’avvio della stretta dell’Introduzione – la compagine del Regio è ottimamente preparata da Martino Faggiani – la partitura inizia a rivelare finezze di strumentazione e frasi con studiata direzione dinamica. Trionfo annunciato alla seconda recita, mentre il 25 gennaio sarà annunciato il programma completo del Festival Verdi 2018; sono già noti i quattro titoli operistici: Macbeth, Un giorno di regno, Attila e – ancora sulle tracce della poco conosciuta produzione per Parigi – non il solito Trovatore ma un sorprendente Trouvère.