di Luca Chierici
Daniele Rustioni, oggi Direttore principale dell’Opera di Lione, ha già al proprio attivo una vasta esperienza nel repertorio verdiano, come abbiamo visto nel recente passato attraverso le nostre cronache scaligere. Saggia decisione quindi, da parte del sovrintendente Serge Dorny, l’avergli affidato un mini-festival che ha avuto nella proposta del Don Carlos la sua scelta più convincente. Rustioni sembra racchiudere in sé l’eredità delle ultime generazioni di grandi direttori italiani, in una sorta di ricapitolazione ontogenetica: in lui si sente decisamente la lezione di Abbado e di Muti come se fosse stata effettuata una specie di sintesi delle qualità migliori dei due grandi predecessori in termini di scavo psicologico delle partiture e di identità specifica delle stesse, ricerca del suono, appartenenza alle diverse fasi creative che caratterizzano il lungo arco compositivo del musicista.
Della complessa vicenda compositiva del Don Carlos, composto nel 1867 per Parigi in lingua francese e poi rimaneggiato più volte nelle versioni in cinque e quattro atti e in lingua italiana si è detto e scritto più volte. La versione scelta da Rustioni per Lione era particolarmente interessante perché riapriva numerosi tagli voluto dallo stesso Verdi in occasione della prima esecuzione parigina, parti che erano state omesse nella celebre versione discografica incisa da Claudio Abbado, che non compaiono nel primo spartito pubblicato da Ricordi nel 1867 e che sono oggi reperibili solamente nella moderna edizione critica. Ne esce un’opera per molti versi differente da quella che siamo abituati ad ascoltare: i numerosissimi luoghi che hanno reso celebre questo capolavoro assoluto sono beninteso conservati, ma vengono intercalati da parti accessorie che servono sicuramente a chiarire i collegamenti tra gli episodi che descrivono la complessa vicenda, ma che limitano spesso l’immediatezza delle versioni successive, dove la musica illumina con straordinaria intensità anche i dettagli nascosti. La versione francese originale comprende oltretutto le immancabili danze, che diluiscono ancor di più l’impatto della successione degli eventi.
La regìa, le scene, le luci (a cura di Cristophe Honoré, Alban Ho Van e Dominique Briguière) insistevano su un Don Carlos oscuro, nebbioso, illuminato solamente nei particolari al modo di certi quadri fiamminghi e particolarmente convincente nell’atto dell’ Autodafé, dove ingegnosa era la realizzazione scenica del rogo che andava a ricoprire i quattro malcapitati di turno, immobilizzati proprio davanti al palco a tre livelli dove erano accomodati il clero, i reali e gli altri spettatori del macabro rito. Una certa caduta di tono si è verificata invece in occasione dei ballabili (la coreografia era di Ashley Wright) commentati a un certo punto da una vera pioggia d’acqua che inondava i protagonisti, ma alla fine si è ritornati all’ordine con la ripresa della scena che in precedenza aveva visto la presenza incombente di un enorme ritratto della crocefissione. L’immancabile comparsa del fantasma di Carlo V, questa volta nei panni di un bimbo illuminato dal sole, siglava convenzionalmente il termine dell’opera. A questo Don Carlos hanno dato vita voci già da tanti anni in carriera ed esponenti delle più giovani generazioni. Il tenore Sergey Romanowsky è stato un protagonista allo stesso tempo innamorato, fiero e insofferente della tirannia paterna ma il suo contributo vocale, per quanto efficace e spontaneo, necessita ancora di studio e perfezionamento stilistico. Elisabetta volitiva era il soprano Sally Matthews e tra i veterani si è ammirato senza dubbio Michele Pertusi, in ottime condizioni vocali e sempre attento alle ragioni più profonde della musica. Il suo Filippo II è stato a lungo applaudito da un pubblico sempre presente e partecipe. Con lui è stato festeggiato Roberto Scandiuzzi, che dava soprattutto voce alle abissali profondità del ruolo dell’Inquisitore. Eve-Maud Hubeaux era un’agitatissima Eboli, la cui parte era resa ulteriormente difficile dall’essere il suo personaggio costretto in una carrozzella che rendeva particolarmente ardui i movimenti scenici. Splendide e realizzate intenzioni di canto erano quelle di Stéphane Degout, Rodrigo a tratti commovente e unico personaggio veramente positivo del dramma.
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Il trittico verdiano diretto da Rustioni prevedeva la ripresa di un Macbeth con la regìa di Ivo van Hove, proveniente dal programma lionese del 2012 e oggi riproposto con le voci di Elchin Azizov (Macbeth), Susanna Branchini (la Lady) e Roberto Scandiuzzi (Banco). Un allestimento che avremmo preferito non ricordare, ambientato in un mega ufficio americano dove i protagonisti sono gli innumerevoli terminali a schermo gigante, impiegate-streghe, dirigenti complottisti, e persino una donna delle pulizie, addetta ovviamente al nettoyage delle famose macchie di sangue. A questo impianto si aggiungeva anche la presenza di indignados e manifestanti di “Occupy Wall Street” nel ruolo di abitanti della famosa “patria oppressa” e ovviamente nemici acerrimi del capitalismo. Che l’ambiente lavorativo aziendale possa celare intrighi e complotti inimmaginabili ai comuni mortali, anche senza arrivare agli omicidi compiuti nel garage al piano “meno 1”, è cosa risaputa. Non per questo è operazione degna e felice l’abbassare il livello della drammaturgia scespiriana con esempi siffatti: la riduzione di tono è tale da minare anche l’integrità del messaggio originale, compreso quello puramente musicale pensato dal compositore. Particolari immancabili come la lettura su un tablet da parte della Regina della famosa missiva o la comparsa di scritte e incomprensibili sequenze numeriche sugli schermi (a proposito, il linguaggio binario è fatto di combinazioni di zero e uno, gli altri numeri non c’entrano !) disturbavano la ricezione del messaggio da parte del pubblico e ostacolavano a mio parere anche le prestazioni artistico-vocali dei protagonisti.
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Di notevole valore, e non certo solamente per l’immediatezza di una versione in forma di concerto, che non “disturba” la ricezione puramente musicale, è stata infine la proposta di Attila, titolo infuocato del Verdi annata 1846, quello più battagliero, eroico, “genuino” che sembra sfruttare qualsiasi appiglio storico del passato anche remoto per sollevare l’attenzione sulla “questione italiana”. Il titolo è stato presentato da Rustioni in maniera del tutto convincente e partecipe, con momenti di entusiastica partecipazione che non hanno mancato di sollevare l’umore e meritare i pieni consensi di un pubblico pienamente conquistato dal messaggio verdiano. Nel cast vocale spiccava l’Odabella di Tatiana Serjan, che sembra trovare in questo ruolo il carattere più affine alla sua vocalità generosa, e l’Attila di Dmitri Ulianov, più ricco forse di volume che di sfumature. Massimo Giordano è stato un Foresto appassionato mentre più limitato dal punto di vista espressivo è sembrato Alexei Markov nel ruolo di Ezio. Al successo (grande) ha contribuito ovviamente anche il Coro preparato da Barbara Kler.