di Luca Chierici foto © Silvia Lelli
Il solitamente compassato pubblico degli abbonati alla stagione della Filarmonica della Scala ha reagito in maniera inconsuetamente positiva, si direbbe addirittura entusiastica, al concerto attesissimo del complesso musicAeterna guidato dal suo fondatore, il quarantaseienne ateniese (ma educato musicalmente anche in Russia) Teodor Currentzis. Ben noto a tutti coloro che seguono le vicende dell’interpretazione della cosiddetta musica classica per le sue posizioni di rottura con la tradizione (altro termine che ogni volta andrebbe chiarito, pena il pericolo di incorrere in spiacevoli incomprensioni, in un senso o nell’altro) Currentzis ha fondato nel 2004 il complesso musicAeterna con il quale conduce una parte significativa della propria attività, accanto a quella di Direttore principale dell’Orchestra della SWR. A fronte di un successo spontaneo che per alcuni potrebbe insinuare un certo sospetto di faciloneria, vale la pena anzitutto precisare almeno due aspetti.
Per prima cosa, nessuno si sognerebbe di mettere in dubbio la preparazione di Currentzis, educato a una scuola molto seria e perfezionatosi sotto la guida di un grande didatta russo, né si può far finta di non conoscere (e rispettare) i gradini di una carriera che ha portato lui e il proprio complesso a meritare non pochi premi e non solo in campo discografico. Il secondo punto da chiarire è quello relativo al carattere dell’orchestra e ai criteri che animano le letture del repertorio classico da parte del direttore. Musicaeterna non è un complesso di strumentisti che opera seguendo una prassi derivante esattamente da posizioni filologiche, utilizza anche ma non esclusivamente strumenti d’epoca o che si possono fare risalire a uno stadio precedente a quello che va a definire la moderna orchestra sinfonica, segue in parte le consuetudini tipiche degli ensemble dedicati al tipo di repertorio ‘antico’ (ad esempio la mancanza di vibrato negli archi) ma ha nel proprio repertorio anche molte pagine di autori della grande tradizione romantica, tardo-romantica, novecentesca e contemporanea. Currentzis e musicAeterna svolgono inoltre una importante attività nel campo del teatro d’opera, attività che si è estesa da Haendel a Puccini , da Mozart a Verdi nei più importanti centri musicali.
Il programma presentato l’altra sera e certi aspetti dell’approccio direttoriale di Currentzis, la disposizione dell’orchestra, il suonare in piedi della maggior parte degli strumentisti, potevano generare l’equivoco relativo a una interpretazione ‘filologica’ dei testi di Beethoven (il terzo Concerto per pianoforte e orchestra e la settima sinfonia) e Mozart (l’ouverture da Le nozze di Figaro) e forse una più compiuta idea dei caratteri interpretativi del direttore greco può essere ottenuta se si vanno ad ascoltare esempi dove i caratteri già accennati della prassi esecutiva barocca sono del tutto assenti, come nel caso di Čajkovskij o Šostakovic.
Ma anche nel repertorio classico il parametro che permette a Currentzis di proporre la differenza è essenzialmente quello ritmico, o meglio la scelta da parte sua di concentrare l’attenzione su alcune cellule ritmico-musicali che secondo lui assumono un valore prioritario all’interno di un testo. Ascoltando la settima sinfonia di Beethoven, al di là dell’assecondare la retorica storicamente ben fondata dell’apoteosi della danza, Currentzis sceglie di evidenziare in maniera molto netta queste cellule fino al punto di trovare solo in quelle la ragion d’essere dell’intera costruzione musicale, e quindi del significato della composizione. Questa scelta, che paga molto in termini di ‘eccitazione esecutiva’ e di partecipazione da parte del pubblico, è a mio parere legittima quanto limitativa. Si perde in altre parole quello che è il vero arco complessivo di una partitura classica importante, il disegno che è stato studiato a fondo dai grandi direttori “di tradizione” (se con questo termine intendiamo riferirci a Furtwangler o a Karajan o a Toscanini, a Bohm o a Walter, Bernstein, Abbado, Muti …). La riprova di questo convincimento la si può ad esempio ritrovare paragonando la visione che Currentzis ci propone del programma eseguito l’altra sera alla recentemente registrata versione discografica della Patetica di Čajkovskij.
Nel primo caso Currentzis può stressare fino allo stremo la componente ritmica eseguendo il preambolo alla folle journée mozartiana a velocità elevatissima e replicandolo come bis subito dopo a velocità ancora maggiore, può concentrare l’attenzione sull’intervallo tonica-dominante che caratterizza (ma non solo quello!) il primo movimento del Concerto in do minore di Beethoven, può evidentemente indicare nella pulsione ritmica il solo e unico motivo d’essere della settima sinfonia e via dicendo. Ma se si ascolta la citata Patetica di Čajkovskij il castello di carte crolla e il mistero viene svelato senz’ombra di dubbio: l’interpretazione di Currentzis è pregevole, sincera nel suo racconto del dramma esistenziale che si nasconde dietro le note, ma diventa un sottoinsieme – non un’alternativa – rispetto a tante altre visioni di più ampio respiro che ci sono state lasciate, ad esempio, dalle grandi figure della storia dell’interpretazione citate in parte più sopra.
Altra ‘prova del nove’ è quella riguardante la concertazione e direzione dei movimenti lenti da parte di Currentzis: il Largo del terzo concerto beethoveniano si scioglieva come neve al sole, mancava di tensione armonica, anche a causa dell’inudibilità del testo a partire dalle prime file di platea; l’allegretto della settima sinfonia, almeno nel suo incipit, sembrava ridotto a una elegante danza di corte, grazie anche a certi movimenti leggiadri che fanno parte del comportamento del direttore sul podio, o meglio in mezzo ai suoi musicisti.
Il solo fatto di dover ricorrere a una lunga pausa tra un movimento e l’altro per ovvi problemi di accordatura degli strumenti ha in alcuni casi provocato delle cesure musicalmente riprovevoli, come quella tra il secondo e il terzo movimento del Concerto, dove l’elemento di sorpresa voluto dallo stesso Beethoven – il passaggio tra due tonalità distanti come il mi maggiore del Largo e il do minore del Rondò – veniva completamente a mancare. Solista nel concerto di Beethoven è stato il quarantacinquenne pianista russo Alexander Melnikov, strumentista di indubbio valore che si è spesso diviso tra il pianoforte moderno (nel quale decisamente lo preferiamo) e quello d’epoca, il cui uso comporta però spesso degli incidenti tecnici cui non siamo abituati, soprattutto se il pianista alterna la propria attività tra i due tipi di strumenti. Il solo fatto che nel programma del concerto della Filarmonica non fosse indicata la provenienza dello strumento usato – che mi dicono non essere stato portato espressamente dal pianista tra quelli dell’orchestra – è un’ulteriore riprova del carattere non-filologico dell’assieme: in genere i pianisti molto attenti alle questioni di prassi esecutiva scelgono con grande cura la data di costruzione del pianoforte (o della replica) in vista di un abbinamento con la data di composizione del pezzo che viene presentato.
Oltre a negare il bis pianistico, Currentzis ha risparmiato anche su quello orchestrale, lasciando il pubblico non insoddisfatto ma ulteriormente soggiogato dalla sua personalità più che assertiva.