di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
È un’operazione lenta ma inesorabile, quella che va compiuta da parte del Teatro alla Scala per il recupero di tutta una stagione creativa per troppo tempo dimenticata e relegata in secondo piano rispetto alla figura dominante di Puccini. Agli operisti – Montemezzi, Alfano, Zandonai e molti altri – che vivono la propria attività accanto ai compositori della generazione dell’80 e ancora prima a quelli della cosiddetta “giovane scuola”, il tempo e i mutamenti del gusto hanno purtroppo riservato una sorte amara che solo da pochi anni forse si sta trasformando in una nuova giovinezza. Non è questione di “cantanti di una volta”, né di mancanza di inventiva per ciò che riguarda le produzioni attuali, semmai fin troppo invasive, piuttosto è il caso di vincere una certa pigrizia mentale e accantonare pregiudizi o ripicche che risalgono addirittura ai tempi della rivalità tra le due case editrici più importanti d’Italia, detentrici dei diritti d’autore. Zandonai, non dimentichiamolo è autore di Casa Ricordi, mentre Giordano, ripescato (a parte l’evergreen Chénier che ha aperto la stagione di quest’anno) con La cena delle beffe pochi anni orsono appartiene alla rivale Casa Sonzogno.
Francesca da Rimini non si dava alla Scala da quasi sessant’anni, troppi per un’opera che aveva visto ben nove allestimenti in un arco di tempo che va dal 1916 al 1959 e che aveva riscosso un successo straordinario, non solamente legato alla presenza di voci di importanza storica. D’accordo, il cast di questa ripresa ‘moderna’ non poteva relegare nel dimenticatoio figure entrate nel mito come Magda Olivero, Mario Del Monaco, la Caniglia, la Cigna o Pertile, ma un’accoglienza più che positiva era giusto riservare a cantanti di nuova generazione che hanno affrontato tessiture impervie e soprattutto speso energie per calarsi in ruoli di non facile gestione scenico-interpretativa. Fuori luogo sono apparse le contestazioni nei riguardi del tenore Marcelo Puente, appassionato Paolo, che hanno guastato in parte l’atmosfera di cordiale successo che ha accompagnato i risultati degli altri protagonisti, a partire dal soprano Maria José Siri, forse figura un poco matronale per il ruolo della giovane Francesca.
Di notevole presenza scenica e impostazione vocale i malvagi della situazione, dal baritono Gabriele Viviani, terribile Giovanni, al tenore Luciano Ganci, efferato Malatestino, all’altrettanto sanguinario Ostasio, il basso statunitense Ashley David Prewett. Liricamente affettuosa è stata il mezzosoprano Alisa Kolosova , interprete del personaggio di Samaritana, sorella di Farancesca, quasi assimilabile alla Crisotemi del mito di Elettra, e discretamente partecipe la Smaragdi di Idunnu Münch. Fabio Luisi, che si conferma ogni giorno di più direttore di una versatilità incredibile, ha riportato alla luce col giusto vigore una partitura molto interessante che non punta tutte le proprie carte su momenti melodici indimenticabili, piuttosto su un’orchestrazione davvero brillante e su una palette armonica che risente del clima di sperimentazione proprio di quegli anni. La connotazione dannunziana, il richiamo continuo a un medioevo di superficie (se ne era parlato anche a proposito della riproposta scaligera de La cena delle beffe di Giordano qualche anno fa) sono solamente spunti che non vanno considerati troppo alla lettera e tutto sommato il messaggio di questa Francesca è puramente di atmosfera musicale, di raffinata colonna sonora di un dramma vecchio come il mondo.
Era scontato che un simile soggetto avrebbe stuzzicato la fantasia di un regista come David Pountney che si è avvantaggiato delle plastiche scene di Leslie Travers e dei costumi Marie-Jeanne Lecca (questi ultimi improntati alla alternanza bianco-nero). Pountney ha giocato le proprie carte sulla contrapposizione tra la sfera violenta dei Malatesta e il mondo magico di Francesca e delle sue ancelle, immerse in un’atmosfera preraffaellita che forse concede troppo candore a un personaggio protagonista femminile tutto sommato da Dante cacciata all’Inferno con il suo bel Paolo. Malatesta significa guerra verso i Ghibellini, enormi cannoni da conflitto mondiale, uniformi pseudo-naziste, richiami all’aeroplano del D’Annunzio propagandista. Francesca, sorella e ancelle vivono in un mondo a parte simboleggiato dalla purezza di una statua femminile neoclassica e dal librone galeotto che diventa un letto per le effusioni amorose tra i due amanti. Poco risolta la scena finale dell’uccisione degli stessi da parte di Giovanni-Gianciotto, ma è la stessa musica di Zandonai che più drammatica non può farsi, avendo già raggiunto i limiti estremi nei convulsi accadimenti che precedono la conclusione della tragedia.