di Alberto Bosco foto © Xavier del Real
A dieci anni dal debutto alla English National Opera la Lucia di Lammermoor ambientata in epoca vittoriana da David Alden arriva al Teatro Real di Madrid, con un reparto di cantanti di prim’ordine e la direzione di Daniel Oren che a eseguito la partitura riaprendo tutti i tagli e con spirito di fedeltà all’originale (inclusa la glassarmonica al posto del flauto nella scena della follia). Tanto scrupolo filologico si è scontrato con le notevoli licenze della messa in scena che ha cercato di trasformare quello che è uno degli esempi più paradigmatici di melodramma del primo Ottocento, con il suo corredo di sentimenti ideali e ben definiti, in uno psicodramma di deviati mentali di fine Ottocento, con il consueto campionario di sadismi puerili e allucinazioni, in un’atmosfera di raggelante perbenismo e disfacimento inarrestabile.
A parziale discolpa di Alden, va detto che Lucia è effettivamente un personaggio troppo fragile per il mondo rude e barbaro in cui è costretta a vivere, e già dalla sua prima aria si avverte quella sua tendenza all’evasione dal reale che la porterà alla follia (è proprio questa sua evanescenza a dare all’opera di Donizetti un carattere così febbrile e centrifugo); ma si tratta pur sempre di un processo, e presentarcela fuori di sé già dal principio toglie ogni patetismo al personaggio. Tanto più che non è l’unica: Enrico, invece di rappresentare da buon baritono, il senso fatale di una realtà nemica dell’ideale (l’amore giusto di Lucia ed Edgardo), è anche lui uno psicopatico, legato alla sorella da un rapporto incestuoso e limitato nella sua malvagità a una cattiveria infantile e perversa; e persino Edgardo, che in mezzo a tutti questi borghesi vittoriani vestiti di nero va in giro conciato come Mel Gibson in Braveheart, all’inizio si direbbe essere solo una proiezione mentale di Lucia, ma poi assume concretezza e, per la sua inconciliabile alterità con quel mondo, finisce per sembrare un mitomane invasato, un puro folle scappato di manicomio.
Questa ambiguità tra realtà e follia è proprio voluta, fin dalle scene con le loro prospettive sghembe e inquietanti, che rappresentano un interno spoglio, a metà strada tra una casa di cura e un opprimente palazzo borghese, affollato di ritratti di antenati; quegli antenati che verosimilmente hanno accumulato la fortuna di famiglia, in nome della quale Lucia va sacrificata. A rendere ancora più perversa questa identificazione tra morale borghese e follia, è la presenza all’interno del palazzo-manicomio di un teatrino privato, un palcoscenico che allude alla pratica ottocentesca e storicamente documentata di spettacoli tenuti da attori matti per il morboso piacere di spettatori borghesi. Questa gioco di teatro nel teatro, oppure manicomio nel manicomio, si esplicita nel finale con la scena della follia che viene “recitata” da Lucia davanti a un pubblico composto da quelle stesse persone che ne hanno in modo indiretto provocato la follia, costringendola con l’inganno a un matrimonio non voluto.
Sembrerebbe di capire che a spingere un regista a lanciarsi in operazioni di questo tipo sia una certa diffidenza nelle potenzialità teatrali del genere, come si è soliti fare per l’opera settecentesca, dove non succede quasi niente e il regista deve inventarsi una drammaturgia parallela. Ma nel caso del melodramma italiano di primo Ottocento, ossia pre-verdiano, è ormai dai tempi della Callas e di Visconti che si è capito che la teatralità di quel tipo di opera va presa così com’è e non stravolta da forme teatrali chissà forse più sottili e sfumate, ma che impediscono a quel mondo di valori di venir fuori, un mondo assai più popolare e liberatorio rispetto a quello delle nevrosi moderne in cui lo si vorrebbe incapsulare per renderlo più attuale o accettabile. Alcune spie di questa sfiducia di fondo nelle ingenuità e incongruenze che sono il sale dell’opera del primo romanticismo, si sono viste quando nella prima scena di Lucia le sue colorature hanno offerto l’estro al regista per una scena quasi parodistica, da musical; oppure quando nel duetto tra Enrico e Lucia, l’acuto di quest’ultima coincide con il gesto del fratello che le infila la mano nelle mutande, degradando così il canto a commento sonoro di quanto avviene in scena, ovvero alla caricatura dell’opera.
Così, nonostante la ricchezza di trovate e la competenza con cui l’impianto registico è portato avanti, si finisce per perdere la bussola, in particolare dalla scena della follia in poi. Persino nella direzione di Daniel Oren, fino a quel momento molto appropriata, si è avvertito un allentamento della coerenza e il tessuto musicale si è fatto quanto mai labile con tempi lenti, languidezze e indugi quasi decadentistici. In quest’atmosfera priva di riferimenti univoci, è difficile giudicare l’interpretazione dei cantanti, al di là dell’incontestabile bravura. Per restare ai personaggi principali: Lisette Oropesa, strabiliante per la pulizia vocale e per la padronanza tecnica di scuola americana, non ha però commosso più di tanto, costretta com’era nei panni di una Lucia troppo infantile; Javier Camarena, invece, è riuscito sempre a far breccia con un canto comunicativo e abbandonato; Artur Rucinski ha voce nobile ed elegante, forse un po’ poco penetrante per un cattivo del calibro di Enrico, mentre Filippo Tagliavini ha cantato molto bene la parte di Raimondo, conferendole un giusto carattere maturo e dolente.